Lembi di velario hanno assimilato talune figure a ombre. In contrapposizione, è apparsa nitida, scandita, reale la ferocia degli uomini. La stessa che ha sconvolto ciò che Andrea De Rosa, regista e scenografo, ha definito «senso del sacro come armonico ordine delle cose». De Rosa ha messo in scena la forza distruttrice di una natura matrigna che ha inglobato sotto la sua cappa scura persone e cose, dettando regole spietate.
Il nuovo allestimento di “Attila” del Festival Verdi al Teatro Regio di Parma – coproduzione con State Opera Plovdiv, città bulgara Capitale della Cultura Europea 2019, che segna una tappa della marcia di avvicinamento a Parma Capitale 2020 – portava la firma del regista e filosofo napoletano, che ha utilizzato una chiave di lettura descrittiva sotto l’aspetto visivo, quanto trascendente nel significato, per l’opera che Verdi trasse dalla trilogia di Zacharias Werner.
La bella, lineare, pulita, fluida compostezza scenica e i costumi pluritemporali (Alessandro Lai) hanno trovato declinazione tenebrosa, di una cupezza profonda e dilagante. Tradimenti e inganni hanno annerito le anime di unni e romani, del feroce Attila e del generale Ezio, il quale non esita a proporre una spartizione privata dei territori che indigna il barbaro. Anche Odabella, figlia del signore della sconfitta Aquileja, è una creatura ambivalente: coraggiosa prigioniera, fedele all’amato cavaliere Foresto, poi invece sposa del carnefice del padre, infine giustiziera. Attila è l’unica figura leale, “onesta” verso la propria indole e gli ideali di conquista. Dalla prima scena è emersa la crudeltà che gli ha armato la mano per pugnalare alla schiena una fanciulla che aveva finto di consolare.
In quest’opera, e parimenti nella concezione di De Rosa, non vi è una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi e la mutevolezza dei sentimenti ha reso tutti, in certo qual modo, dei vinti. Solo la fierezza è rimasta indomita. Così il citato rapporto registico tra l’uomo e la sacralità si è spostato su un piano visionario che, significativamente, ha reso difficilmente distinguibili le persone in carne e ossa dai fantasmi della mente, i fatti dalle allucinazioni. Il muro superstite di Aquileja rasa al suolo si è aperto sul cielo roseo (luci magistrali di Pasquale Mari) e sull’azzurro della laguna che i profughi hanno attraversato per fondare la nuova città di Venezia. Immagine che per un breve momento ha squarciato lo spazio crudo, violento e selvaggio dove i sopravvissuti vivevano sulla nuda terra e morivano nelle sue viscere. E da una voragine, al termine, è uscita una trasparente lingua di fuoco che ha inghiottito il flagello di Dio.
Gianluigi Gelmetti, sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, ha mostrato attenzione alle peculiarità dell’edizione critica a cura di Helen M. Greenwald (The University of Chicago Press e Casa Ricordi), uno dei fattori ricorrenti d’eccellenza del Festival Verdi di quest’anno. Una lettura dai tempi serrati, coerentemente drammatica, improntata alla correttezza formale. Nel ruolo del titolo Riccardo Zanellato ha messo in campo la salda convincente potenza dei mezzi vocali e la spiccata personalità interpretativa e scenica con cui ha tratteggiato un personaggio terribile ed elegante al contempo, dal fascino inquietante e magnetico. Maria José Siri, soprano di razza perfettamente calata nei panni di Odabella, con padronanza tecnica ed espressiva ha affrontato agilmente le pagine impetuose, illuminate da squilli svettanti, e quelle intimistiche, dai freschi respiri. Splendidamente calibrato Vladimir Stoyanov, il cui timbro ricco di colori, il fraseggio curato e il canto senza sbavature hanno restituito a Ezio la nobiltà di guerriero. Francesco Demuro è stato Foresto dalla linea stilistica complessivamente fine e appropriata. Nulla meno che ottimi Paolo Battaglia, Leone, e Saverio Fiore, Uldino. Martino Faggiani ha riservato grande cura ai chiaroscuri dinamici nel preparare il Coro del Teatro Regio di Parma, che ha confermato il proprio valore.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi, il 13 ottobre 2018
Contributi fotografici Roberto Ricci