Al Teatro Filarmonico di Verona, l’opera di Puccini ambientata nei moti politici parigini del ‘68. Giovani talenti in ascesa sul podio e nel cast.
Titolo natalizio per eccellenza in quanto l’esordio si dovrebbe svolgere la vigilia di Natale, La bohème era invece collocata nella turbolenta primavera del Sessantotto, in una Parigi in pieno fermento politico.
Questo, l’assunto sul quale si è basata la regia di Stefano Trespidi per il nuovo allestimento di Fondazione Arena che ha concluso l’anno 2022 al Teatro Filarmonico di Verona.
Idea di ispirazione cinematografica, interessante e valida, certamente in grado di avvicinare l’opera alla sensibilità odierna, che tuttavia ha generato non pochi momenti di perplessità.
Puccini ha musicato il dramma della disperazione, della miseria, della solitudine. Per Trespidi (coadiuvato da Guillermo Nova, Silvia Bonetti e Paolo Mazzon per scene, costumi e luci) l’afflizione pucciniana si è tramutata in motore di rabbia e ribellione per i giovani protagonisti che, non più caratterizzati come uno scrittore, un pittore, un musicista e un filosofo, hanno vestito panni politicamente impegnati, prendendo parte, più o meno attivamente, alle manifestazioni che hanno invaso le strade di Parigi. Tuttavia il presupposto si è a poco a poco perso per strada.
La desolata e buia soffitta del primo atto è diventata una sede clandestina brulicante di attivisti impegnati a ciclostilare manifesti di protesta.
Il secondo atto (così è stato definito dall’altoparlante che ha invitato gli spettatori a non alzarsi durante il lungo cambio scena, ma più propriamente sarebbe il secondo quadro del primo atto) il Café Momus è diventato il Café de Flore sito al numero 168 di Boulevard de Momus. Locale ai cui tavolini si sono seduti i nostri per degustare la crema o per sognare vezzi di corallo, dapprima distratti protagonisti e di lì a poco indifferenti spettatori di quanto stava accadendo davanti ai loro occhi: cortei di dimostranti con striscioni, bandiere rosse mischiate ai tricolori francesi e grandi teste grottesche derisorie dei politici al potere. A sedare la manifestazione, un drappello di poliziotti pronti a roteare gli sfollagente. Nel bel mezzo tra contestatori e manganellatori, hanno poco credibilmente preso a scorrazzare i bambini intenti a giocare, ed è parso un miracolo che siano rimasti illesi.
La Barriera d’Enfer in questa occasione è stata reimmaginata come la sede occupata dell’Università di Nanterre, uno degli epicentri francesi del ’68, con Mimì che, per ascoltare non vista la conversazione tra Rodolfo e Marcello, si è nascosta all’interno di una carcassa d’automobile precedentemente data alle fiamme.
Ciò che maggiormente in questo allestimento ha suscitato perplessità, per il decadere dell’iniziale idea registica così come per la macroscopica incoerenza col dettato pucciniano, è stato l’ultimo atto. Come è noto sono trascorsi anni. I nostri avevano traslocato in un bell’appartamento dalla cui finestra si scorgeva, non distante, la Tour Eiffel. Il locale era arredato con mobili moderni, che potrebbero essere frutto di una professione ormai ben avviata oppure potrebbero rappresentare il ritorno dei figli alla famiglia borghese d’origine dopo l’infrangersi dei loro sogni adolescenziali. Il drammatico repentino sbriciolarsi della gioventù in Puccini è elemento predominante, e ne diamo atto al regista Trespidi.
La scena era divisa in due: da un lato il salotto con divano, telefono e impianto stereo d’epoca con accanto una bottiglia di champagne, dall’altro la toilette dove troneggiava una grande vasca da bagno simile a un idromassaggio, da cui sono emersi Marcello e una “donnina allegra” ignudi (però mutandati!). Mentre i giochi e gli scherzi che aprono l’atto pucciniano sono stati plausibilmente ricollocati dalla regia in un contesto di libertà di costumi, è stato difficile immaginare, in tale ambiente agiato, il netto cambio di registro con cui Puccini fa magistralmente ripiombare i protagonisti nello strazio dell’indigenza, nel dramma della povertà più nera, che spinge Musetta a privarsi del proprio manicotto per farne dono alla morente Mimì e che induce Colline a vendere il lacero cappotto per pagare un medico. Difficile, in questo contesto benestante, sentire (e far sentire al pubblico) quel freddo che consuma i polmoni di tisi fino a divorare le anime.
Non a caso abbiamo sempre fatto riferimento alla musica e non al libretto di Illica e Giacosa. Infatti, le note di Puccini sono evocative più delle parole, più di qualsiasi gesto, più di qualunque ambientazione, più di qualsivoglia spasmodica ricerca di innovazione visiva. E se da un lato il compositore mette in scena la quotidianità, fatta delle piccole cose di tutti i giorni che Trespidi ha ben avvicinato al sentire odierno, dall’altro Puccini evoca sentimenti, emozioni, passioni. Per dirla con una parola sola: poesia. Questa, abbiamo faticato a ravvisare.
Passando alla parte musicale, anche il podio ci è sembrato essere stato stringato in quelle “finestre che si spalancano” tipiche del compositore toscano. Ma, va subito precisato, molte sono state le qualità emerse in Alevtina Ioffe, giovane direttrice originaria di Mosca, la quale ha saputo tenere sempre viva la tensione drammatica e ha palesato indubbie doti, iniziando dalla lettura attenta e meticolosa, dalla cura ammirevole, dimostrata soprattutto nel bilanciamento delle dinamiche, sia per la buca che per il palco, a parte una scivolata sul temibile quadro del Quartiere Latino. Il gesto è risultato assai chiaro e di conseguenza agilmente seguito, con la ben nota perizia, sia dall’Orchestra di Fondazione Arena sia dai confratelli areniani del Coro, istruiti da Ulisse Trabacchin, ai quali si sono unite le voci bianche di A.LI.VE. dirette da Paolo Facincani.
Apprezzabile il cast formato da giovani e giovanissimi ma con già all’attivo curriculum internazionali di tutto rispetto. Dal Messico provenivano i due protagonisti, che in scena hanno formato una coppia ottimamente assortita: Mimì era Karen Gardeazabal e Rodolfo Galeano Salas. Il soprano, forte di un timbro naturalmente bello, si è profusa in una discreta varietà di accenti e sfumature, denotando di pari passo una intensa espressività vestendo i panni della dolce Mimì. Anche il tenore si è mosso sulla scena in modo convincente e ha centrato il personaggio di Rodolfo riuscendo a interpretarne tutta la dirompente carica emotiva in continuo mutamento; parallelamente ha saputo accortamente misurare l’acuto, saldo e al contempo morbido e aggraziato, mentre la linea di canto è stata guarnita da una apprezzabile gamma coloristica.
Marcello, per un’unica recita, era il baritono Andrea Vincenzo Bonsignore, in una prestazione valida sotto ogni profilo: tecnico, espressivo e attoriale. Il soprano Giuliana Gianfaldoni, dall’elegante linea di canto,ha anch’ella ben calibrato la figura di Musetta, senza debordare in eccessi che qui, più che in altri allestimenti, sarebbero parsi stonati.Un bravo anche a Schaunard, il baritono catalano Jan Antem, e a Colline, il basso Francesco Leone, che ha conquistato un meritato applauso nell’espressività desolata con cui ha intonato “Vecchia zimarra”. Ben calibrate le due interpretazioni di Nicolò Ceriani, lodevolmente mai andato sopra le righe nei ruoli di Benoit e Alcindoro. Corretto Antonio Garés come Parpignol. Infine gli areniani Jacopo Bianchini Sergente dei doganieri, e Francesco Azzolini, Doganiere.
È stata una gioia rivedere il teatro Filarmonico finalmente pieno, prossimo all’esaurito. Per la sera dell’ultimo dell’anno è prevista una recita straordinaria, con un cast interamente nuovo: Roberto Alagna, Irina Lungu e sul podio Andrea Battistoni (vedi notizia DeArtes qui).
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 14 dicembre 2022
Contributi fotografici: Foto Ennevi