Francesca Dego e Francesca Leonardi dedicano il loro nuovo album al repertorio del ‘900 con la Suite Italienne di Stravinsky, la Sonata in si minore di Respighi e la prima registrazione mondiale di tre brani di Mario Castelnuovo-Tedesco.
Oltre alla parafrasi delle opere di Rossini e Verdi, il CD racchiude la Ballata op. 107 del compositore fiorentino che fu scritta ed eseguita per la prima volta da Tossy Spivakovsky in 1940. Il brano è stato riscoperto nel febbraio 2018 da Francesca Dego grazie all’aiuto della nipote del compositore, Diana Castelnuovo-Tedesco.
“Dopo essere stata per molte decadi nell’ombra, la musica di mio nonno ora ha una seconda possibilità di essere ascoltata e riconsiderata” dichiara Diana Castelnuovo-Tedesco. “La nostra famiglia è felice che queste opere come la Ballata tornino nuovamente in vita e raggiungano un vasto pubblico grazie alla superba interpretazione di Francesca Dego e Francesca Leonardi”.
Francesca Dego a Francesca Leonardi collaborano da oltre tredici anni ed hanno già al loro attivo l’integrale delle Sonate di Beethoven pubblicata sempre da Deutsche Grammophon.
Francesca Dego ha debuttato sulla prestigiosa etichetta gialla con i Capricci di Paganini (2012) ed ha ottenuto un notevole successo con la sua più recente incisione dedicata al Concerto per violino diWolf-Ferrari e il Concerto per violino n. 1 di Paganini.
Tracklist
Ottorino Respighi (1879-1936)
Violin Sonata in b minor for violin and piano
1. I. Moderato
2. II. Andante espressivo
3. III. Passacaglia. Allegro moderato ma energico.
Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968)
4. “Ballade” Op. 107 for violin and piano – WORLD PREMIERE RECORDING
Igor Stravinsky (1882-1971)
Suite Italienne from “Pulcinella” for violin and piano
5. I. Introduzione. Allegro moderato
6. II. Serenata. Larghetto
7. III. Tarantella. Vivace
8. IV. Gavotta con due variazioni
9. V. Scherzino
10. VI. Minuetto e Finale
Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968)
11. “Rosina” for violin and piano (from “Il Barbiere di Siviglia” by Rossini) WORLD PREMIERE RECORDING
12. “Figaro” for violin and piano (from “Il Barbiere di Siviglia” by Rossini)
13. “Violetta” for violin and piano (from “La Traviata” by Verdi) WORLD PREMIERE RECORDING
Francesca Dego, violino
Francesca Leonardi, pianoforte
***
“Suite Italienne” è l’insegna che estende a tutto questo CD il titolo della Suite per violino e pianoforte di Igor Stravinskij, una delle opere incluse nel programma. Date le molteplici accezioni all’aggettivo “italiano”, per comprendere che cosa esso significhi in questo specifico caso occorre incominciare da un momento della storia della musica italiana tra Ottocento e Novecento.
Mentre crescevano i successi di Giacomo Puccini e dell’opera verista, alla scena musicale del nostro Paese si affacciarono alcuni giovani compositori che, pur senza presentarsi sodalmente come gruppo e senza rendere pubblico alcun manifesto, si assomigliavano per la comunanza dei loro propositi. Furono più tardi definiti “Generazione dell’Ottanta”. In estrema sintesi, si può dire che, opponendosi al dominio che l’opera esercitava in misura quasi esclusiva sul nostro pubblico, intendevano far risorgere il culto della musica strumentale e riconnettersi alla gloriosa tradizione italiana, dal Rinascimento fino al Settecento, aprire gli orizzonti della vita musicale di casa nostra a tutta la scena europea, accogliendone gli stimoli e inserendosi a pieno diritto nel suo corso, e dare impulso alla nascente disciplina musicologica, riconosciuta come fattore vitale della stessa creazione.
Condivisi da questi maestri furono il sentimento e la coscienza dell’essere italiani, cioè di discendere da un passato che risaliva alle origini stesse della civiltà mediterranea, di cui l’Italia era stata, nelle diverse forme
dell’arte, la più ricca sorgente e la più generosa nutrice. Si immersero dunque, in varia misura e con diverse scelte esistenziali, nel flusso – in quegli anni alquanto agitato – della musica europea, senza mai smarrire il senso della loro origine e di una orgogliosa appartenenza.
I componenti della “Generazione dell’Ottanta” furono Ottorino Respighi (Bologna, 1879 – Roma, 1936), Ildebrando Pizzetti (1880-1968), Gianfrancesco Malipiero (1882-1973), Alfredo Casella (1883-1947), mentre non è unanime, nel giudizio degli storici, l’inclusione nel gruppo della figura di Franco Alfano (1875-1954).
Si trattava – inutile a dirsi – di fior di musicisti appena usciti da severe formazioni accademiche, capaci quindi di sostenere un orientamento modernista senza tema di essere tacciati di velleitarismo; e fin dai rispettivi esordi, infatti, essi imposero all’inevitabile fronte conservatore il rispetto che si deve ai propri pari, e non a dei parvenu.
Ottorino Respighi aderì all’ideale sodalizio, ma non in linea filosofica o teorica. Egli ne incarnò l’essenza con il proprio concreto modo di essere e di operare, e fu, tra i suoi colleghi, quello che ottenne il più vasto riconoscimento internazionale, grazie soprattutto alla fama raggiunta dai suoi tre poemi sinfonici: “Fontane di Roma” (1916), “Pini di Roma” 1924), “Feste romane”(1928), opere entrate nel repertorio delle orchestre di tutto il mondo e interpretate da grandi direttori. In queste tre composizioni “maggiori” si riflettono limpidamente i caratteri peculiari dell’arte di Respighi: l’indole schiettamente italiana del suo dono melodico, la sua intrepida esposizione all’influsso di Wagner e di Richard Strauss, la sua fedeltà alle leggi dell’armonia tonale e modale, finissimamente elaborate, e la meravigliosa perizia che si dispiega nella sua orchestrazione, acquisita grazie anche alle lezioni ricevute in Russia da Nikolaj Rimskij-Korsakov. Ha ben pochi eguali, nel Novecento, la capacità del maestro bolognese nell’esaltare le qualità idiomatiche degli strumenti – siano essi trattati nel contesto orchestrale o individualmente: il colore che Respighi ne spreme proviene sempre dal loro nocciolo sonoro, come se di ciascun arnese musicale egli fosse un esperto padrone. Ciò è evidente anche per quanto riguarda il pianoforte, sebbene egli non lo avesse studiato e avesse imparato a suonarlo come autodidatta (viene in mente il caso, altrettanto stupefacente, di George Enescu).
Eccellente strumentista lo fu senz’altro: diplomatosi in violino (prima che in composizione) al Liceo Musicale “Rossini”di Bologna nel 1899 con un programma comprendente “Le Streghe” di Paganini, mentre le sue prime composizioni iniziavano a farsi strada, non rinunciò alla militanza concertistica, ed entrò a far parte come violista del Quintetto Mugellini. Il violino continuò a essere oggetto di una delle sue più accese passioni musicali, e fu celebrato come strumento solista in ben sei composizioni con orchestra, tra le quali spiccano il “Concerto gregoriano” (1921), e il “Poema autunnale” (1925).
Anche nella musica da camera il violino è protagonista regale, e tocca il suo apice nella “Sonata in si minore” (n. 110 nel catalogo Pedarra) del 1917. In quel periodo, Respighi stava faticosamente superando la grave crisi depressiva che lo aveva colpito dopo la morte della madre (1916). I segni della ripresa si manifestarono nella creazione del poema sinfonico “Fontane di Roma” e, l’anno seguente, nel completamento della “Sonata in si minore” per violino e pianoforte. In quest’opera, Respighi si orientava con sicurezza in un elaborato cosmopolitismo musicale, ben conscio di potersene giovare sopportandone i rischi. Basta, infatti, la sezione espositiva del primo tempo della Sonata a rendere evidente la sapienza con la quale il compositore seppe amalgamare, nel suo stile, la tendresse evocativa di un Gabriel Fauré e la germanica Unruhe di un Max Bruch. L’andamento cullante del primo tema e la rarefatta aria da rêverie del secondo, con la loro mobilità armonica e le ondulate irregolarità dei loro ritmi, creano il clima di un idillio, sul quale irrompe la drammatica sezione centrale, volta a contrapporre, con sbalzo estremo, la passione infuocata e l’estasi paradisiaca (e questo è indubbiamente un retaggio romantico).
Il secondo tempo è un magnifico esempio di arte vocale da camera agghindato in vesti violinistiche e mosso da un capo all’altro da un afflato lirico che trascorre da luminose dolcezze a infiammate perorazioni, mentre l’imponente “Passacaglia” che forma il terzo tempo inizia con un enunciato pianistico di barocca eloquenza e si erge nelle prime variazioni con enfasi solenne, per poi addolcirsi in leggiadre evocazioni: sembra, questa “Passacaglia”, un dipinto che raffiguri un imponente palazzo del secolo XVII con le aiuole di un giardino Liberty. Una sorta di temporale avvolge poi l’italico paesaggio in una sorta di vortice, infine adagiato, in quieta espirazione, sulle note della triade di tonica in lenta successione discendente.
Mario Castelnuovo-Tedesco (Firenze, 1895 – Beverly Hills, California, 1968) fu allievo prediletto di Ildebrando Pizzetti, e respirò quindi, fin dagli anni giovanili, il clima culturale della “Generazione dell’Ottanta”, corroborato dagli apporti di un’istruzione privilegiata: studiò in casa con precettori privati che la sua facoltosa famiglia di banchieri ebrei poteva permettersi, fin dall’infanzia fu avviato alla cultura classica, ed era già poliglotta quando, a nove anni, incominciò a suonare il pianoforte sotto la guida di Edgardo del Valle de Paz.
La scelta tra la carriera pianistica e quella di compositore fu influenzata dalla figura nobile e severa di Pizzetti: pur senza mai abbandonare l’amato pianoforte, Castelnuovo-Tedesco si inserì ben presto nel novero degli autori che rappresentavano la nuova musica italiana, sia in patria, sia nei festival europei. Fu proprio uno degli esponenti della “Generazione dell’Ottanta”, Alfredo Casella, eccellente pianista oltre che eclettico compositore, a rivelare la musica per pianoforte e le liriche da camera del giovane maestro fiorentino in Italia e all’estero, suscitando opposte reazioni: da un lato, la critica conservatrice del nostro Paese lo considerava come un pericoloso esponente di un insano modernismo, dall’altro lato la sua opera risultava, agli occhi dell’ideologia musicale d’oltralpe, persa nella palude di un irredimibile passato; ma crescevano, intorno al suo nome, stima e consenso da parte della categoria che, infine, decide le sorti di un compositore. Infatti, la sua musica per orchestra, per pianoforte, per organici da camera, le sue liriche vocali da camera, i suoi Concerti per pianoforte, per violino, per violoncello, si giovarono del convinto sostegno di interpreti quali Arturo Toscanini, Walter Gieseking, Jascha Heifetz, Gregor Piatigorskij, e, dal 1932, Andrés Segovia, che avrebbe conquistato, con la sua magica chitarra, le predilezioni dell’autore. Tutto questo fervore – che un critico invidiosamente avverso qual era Guido Pannain avrebbe definito “efimeri trambusti” – animava un’esistenza serena, che Castelnuovo-Tedesco trascorreva nell’amata Firenze e nelle località di villeggiatura (Usigliano di Lari e Castiglioncello quelle preferite), coltivando affetti familiari e amicizie,
svolgendo un’apprezzatissima attività concertistica quale accompagnatore al pianoforte di
cantanti da camera, e rimuovendo ogni preoccupazione per l’avvento del regime fascista.
L’armonia di questa vita fu bruscamente infranta dalle leggi razziali del 1938. Temendo per la propria sorte e per quella dei suoi familiari, il compositore, con l’aiuto di Toscanini e di Heifetz, abbandonò l’Italia ed emigrò negli Stati Uniti, dapprima all’est, a Larchmont, vicino a New York, e poi a Beverly Hills, in California. L’industria cinematografica americana gli diede lavoro quale ghost-writer di musica da film, ricompensandolo con la sola unità di misura dei valori vigente in quel mondo, cioè i dollari. La sua fama di musicista di altissima capacità professionale si sparse rapidamente, facendo di lui il maestro più ricercato dei giovani compositori che aspiravano a una carriera negli studios:
i vari Henry Mancini, John Williams, André Previn, Jerry Goldsmith, Lionel Newman, Elmer Bernstein, etc., impararono da lui il mestiere di comporre e gliene serbarono manifesta gratitudine.
Tornò saltuariamente in Italia a partire dal 1947, però come turista di cittadinanza statunitense, e il mondo musicale italiano, che già gli aveva voltato le spalle dai tempi delle leggi razziali, si impegnò nel tentare di infliggergli nuove, umilianti ferite; ma il “signorile umanista toscano” (come ebbe a definirlo Massimo Mila) seppe elevarsi sopra le miserie dei suoi ex colleghi e rimase fedele a sé stesso, seguitando, nella sua villetta
non lontana dalle sfarzose residenze dei divi di Hollywood, a scrivere musica al di fuori di ogni corrente e di ogni dogma. Morì a Beverly Hills nel 1968. Le sue opere, scomparse dai programmi delle istituzioni musicali europee nel dopoguerra, trovarono rifugio soltanto nei concerti di chitarra, grazie a Segovia e ai suoi seguaci. Negli ultimi due decenni, tuttavia, ha preso avvio, grazie all’iniziativa di giovani interpreti liberi dai condizionamenti della critica ideologica, una ricerca della sua musica, e il suo catalogo è oggetto di una sempre più approfondita esplorazione: i “trambusti” malvisti da Pannain non erano – ahilui – “efimeri”…
In tale quadro si colloca questa registrazione – la prima, in assoluto – della “Ballade for Violin and Piano op. 107”, uno dei lavori più importanti tra quelli che Castelnuovo-Tedesco dedicò al duo di violino e pianoforte (oltre ai due Concerti per violino e orchestra). Tale formazione gli era particolarmente congeniale, e fin dall’inizio della sua attività creativa egli le rivolse una speciale attenzione: risale infatti al 1918 il dittico op. 10 intitolato “Signorine”, seguito da altre pagine caratteristiche (“Ritmi op. 15” del 1920, “Capitan Fracassa op. 16” del 1921), fino all’esito di maggior rilievo, la “Sonata – quasi una Fantasia op. 56” del 1929 e al brano reso celebre da Jascha Heifetz “The Lark: Poem in the Form of a Rondò op. 64” del 1931.
Appena sbarcato a New York nell’estate del 1939, Castelnuovo-Tedesco ricevette ben tre commissioni da parte di famosi violinisti che, con il loro gesto, manifestavano in egual misura la stima per il compositore e l’intento di aiutare l’amico che, in America, doveva rifarsi una vita. Jascha Heifetz gli chiese un insolito Concerto, non per violino e orchestra, ma per violino e pianoforte; Tossy Spivakovsky volle la “Ballade” e Albert Spalding scelse invece la forma del Poema per violino e orchestra “à la Chausson” (e ne uscì “Larchmont Woods”). Il compositore, desideroso di corrispondere alle attese degli illustri committenti, lavorò alacremente nella sua residenza campestre di Larchmont, e consegnò le partiture in tempi assai brevi.
Dei tre lavori, la “Ballade” fu l’unico a ottenere il pieno assenso del dedicatario. Spivakovsky, infatti, diede la prima esecuzione del “suo” pezzo il 23 novembre 1940 alla Carnegie Hall. Scrive il compositore nella sua autobiografia intitolata “Una vita di musica” (Cadmo, Firenze, 2005, pag. 325):
Un terzo lavoro (anche questo inedito, ma per lo meno eseguito!) è la Ballade per violino e pianoforte, che scrissi in quel periodo per Tossy Spivakovski (Tossy aveva inciso, molti anni prima, a Berlino, il mio primo disco violinistico col Chant Hébraïque: l’avevo poi conosciuto in Italia, e ritrovato infine, anche lui profugo, a New York). L’idea del pezzo mi fu data da Tossy stesso, il quale mi aveva fatto notare come, nella letteratura violinistica, non esistessero (all’infuori di quella di Vieuxtemps) delle Ballate: ed io scrissi questa, seguendo l’andamento strofico, caro a Chopin: è un pezzo di vaste dimensioni e ricco di risorse (un po’ lungo, forse), simile, in qualche senso, The Lark (cosa di cui Heifetz mi rimproverò). Ma neanche questo riuscii a pubblicare, per l’avversione che gli editori americani hanno per i pezzi di estese proporzioni e di non comune difficoltà tecnica (e dei miei rapporti con gli editori americani avrò occasione di riparlare).
Curiosamente, ma non senza motivo, Castelnuovo-Tedesco scrisse il titolo in francese e il sottotitolo in inglese: nel primo, adombrava l’origine chopiniana della composizione; nel secondo, rendeva esplicita la realtà contingente nella quale l’aveva scritta.
Il ricco corredo di indicazioni di tempo e di carattere che contraddistingue la scrittura musicale del compositore è utilissimo per gli interpreti e per i lettori delle partiture: così, l’esordio del violino solo nella “Ballade” è spiegato nella dicitura “Tranquillo e meditativo”, che ben si addice al ritmo cullante dell’introduzione – una sorta di barcarola, alla quale il sostegno del pianoforte aggiunge, al tempo stesso, grazia e profondità. Questi due aspetti – carezzevole l’uno, energico e volitivo l’altro – costituiscono il perno dialettico dell’intera, ampia costruzione. Rispetto alla Sonata respighiana, si nota la scomparsa di ogni traccia di eloquenza a favore dell’eleganza apollinea del disegno melodico, l’assottigliamento del tessuto armonico a favore della sua
trasparenza e, in generale, una riduzione del contrasto tra i diversi caratteri: sembrerebbe che il maestro fiorentino, ben saldo nella sua indole italica e nelle matrici inconfondibili del proprio stile, non guardasse in alcun modo ai modelli germanici cari a Respighi, e mostrasse invece di preferire la più lieve allure dei maestri francesi, persino, a tratti, del Debussy della Sonata per violino e pianoforte (1916-17).
Lo stesso compositore, nel tono amabile della sua prosa da conversazione in salotto, incline all’understatement assai più che all’autocelebrazione, ci ha raccontato l’origine – del tutto casuale – delle sue parafrasi violinistiche dalle opere di Rossini, Verdi, Donizetti, Mozart. Nel 1941, mentre lavorava alla Metro Goldwin Mayer, venne chiamato ad ascoltare La Figlia del Reggimento eseguita in forma di concerto: i produttori della casa cinematografica minacciavano di farne un musical. Il progetto non trovò poi realizzazione, con sollievo di Castelnuovo-Tedesco, al quale tuttavia, durante l’ascolto, accadde di pensare che alcuni episodi dell’opera si sarebbero magnificamente prestati alla trasformazione in brani per violino e pianoforte “armonizzati modernamente e con sapore piccante!”, il che avrebbe dato via libera al suo amico Heifetz per “far dei gorgheggi come Lily Pons”. Nacque così “La Figlia del Reggimento – A Fantasy for Violin and Piano on themes by Donizetti op. 110”. Heifetz si ci buttò a capofitto, e piovvero le richieste di altri virtuosi del violino, ai quali il compositore, un po’ per il desiderio di accontentarli e un po’ per il proprio divertimento, non seppe dire di no. Aggiustò tuttavia la mira: mentre, nella Fantasia donizettiana, aveva lavorato su diversi temi, nelle parafrasi successive inquadrò un solo personaggio e una singola pagina (o al massimo due). Ne uscirono: “Figaro, from The Barber of Seville by Rossini” (in diverse versioni, tra le quali una per violoncello e pianoforte); “Don Giovanni, a Serenade from Don Giovanni by Mozart”, “Cherubino, two arias from The Marriage of Figaro by Mozart”; “Susanna, from the Marriage of Figaro by Mozart”, “Rosina, from The Barber of Seville by Rossini”, “Violetta, from La Traviata by Verdi”). Castelnuovo-Tedesco, temendo che il genere gli prendesse la mano, decise infine di chiudere il rubinetto, e non assegnò a queste composizioni un numero d’opera. Eppure in esse troviamo, sparso a piene mani, un umorismo musicale raffinato nel gusto e spettacolare nella forma, tratti autentici della sua indole e del suo stile.
Le pagine scelte dalle interpreti di questo CD – “Violetta”, “Rosina” (in prima registrazione) e “Figaro” – vanno apprezzate singolarmente, nelle loro caratteristiche patetiche o ridanciane, ma anche come una galleria dei caratteri di una dramatis personae interpretati da un solo, grande attore: il violino, esaltato nelle sue peculiarità virtuosistiche ed espressive e sospinto in un ruolo teatrale, con la complicità del pianoforte che gli fa da spalla.
Poco incline a occuparsi di storia della musica – e meno che mai di quella a lui contemporanea – Igor Stravinskij probabilmente non ebbe mai contezza della “Generazione dell’Ottanta”, anche se è accertato che conobbe individualmente più d’uno dei suoi esponenti. Eppure, una qualche affinità con il loro mondo, sebbene altrimenti realizzata, si delinea nell’ascolto della “Suite Italienne” inclusa in questa registrazione. Non diversamente da Respighi (con le sue lussureggianti trascrizioni orchestrali di musica antica italiana), il maestro russo si volse al passato non per affondarvi nostalgicamente, ma per farne un eccitante stimolo creativo. Lo attrasse, in particolare, un richiamo di schietta marca napoletana, ed egli vi attinse liberamente, mosso da una rapinosa curiosità e da una sorta di ironico affetto. Ecco quindi, tra il 1919 e il 1920, “Pulcinella, balletto con canto in un atto per soli e orchestra da Giovanni Battista Pergolesi”. Sobillato dal vulcanico Djagilev, Stravinskij trovò il soggetto nella Biblioteca Nazionale di Napoli (“I quattro pulcinelli simili”) e la musica la scrisse non a partire dalla pagina bianca, ma prendendo a piene mani da varie opere di Pergolesi, nonché da pseudo-Pergolesi della cui infedele attribuzione egli non poteva essere consapevole: chi gli avrebbe potuto rivelare che l’aria “Se tu m’ami” non era del sublime Giovanni Battista, ma dello scaltro Parisotti?
Dalla partitura del balletto, Stravinskij ricavò poi, nel 1922, una Suite da concerto per orchestra e, dieci e undici anni dopo, le due versioni della “Suite Italienne”, la prima per violoncello e pianoforte – mediata da Gregor Piatigorskij – e la seconda per violino e pianoforte – per la cui stesura il compositore si avvalse della collaborazione di Samuel Dushkin, il violinista di sua fiducia al quale aveva dedicato, nel 1931, il suo Concerto per violino e orchestra. Costruita in sei movimenti, la Suite è un prezioso esempio di raffinatezza artigianale – uno di quegli oggetti ben congegnati e ben rifiniti che, secondo Stravinskij, dovevano costituire il principale obiettivo di ogni compositore, indipendentemente da valori espressivi nei quali egli diceva di non credere – e trattiene quei caratteri di italianità – la fluida bellezza delle melodie, l’eleganza coreutica dei ritmi, la ricchezza e la varietà dei colori – che, sentiti dai maestri della “Generazione dell’Ottanta” come eredità congenita al loro far musica – erano da lui guardati da fuori, ma con l’acume del genio.
Castelnuovo-Tedesco ricorda, nelle sue memorie, le conversazioni con Stravinskij, sempre improntate alla cordialità e alla reciproca stima: questa registrazione rintraccia e rende esplicite alcune sottili corrispondenze che, forse, la storia ufficiale della musica non ha ancora ben colto e rappresentato. A volte, gli interpreti precedono gli studiosi…
Angelo Gilardino