Il maggior pregio dell’allestimento è stato l’aver utilizzato canoni classici e tradizionali senza farli apparire polverosi, ma anzi freschi e contemporanei. Impresa non facile eppure pienamente riuscita ne “Il malato immaginario”, adattamento da Molière ad opera di Guglielmo Ferro, pure regista. La versione è risultata spurgata degli intermezzi musicali e danzati presenti nella seicentesca Comédie-ballet (che oggigiorno nessuno più rappresenta nella sua complessa totalità).

Gli abiti di scena portavano la firma illustre della costumista Santuzza Calì (tra l’altro, storica collaboratrice del grande Emanuele Luzzati), mentre la scena fissa di Fabiana Di Marco era costituita da una piccola struttura centrale a vari piani collegati da una scala a chiocciola: un volano attorno al quale è ruotata la commedia; un totem dalla plurima valenza di libreria, di farmacia, non ultimo di gabinetto dove risolvere i presunti esilaranti affanni di Argante.

Protagonista di questa operazione magnificamente a cavallo tra fedeltà e ringiovanimento – prodotta da Compagnia Molière La Contrada Teatro Stabile di Trieste in collaborazione con Teatro Quirino Vittorio Gassman – nei panni dell’irresistibile ipocondriaco, era Emilio Solfrizzi, il cui spessore attoriale è andato ben oltre le prove che gli hanno dato popolarità televisiva, la quale ha comunque portato frutti misurabili nel tutto esaurito registrato dal Teatro Sociale di Mantova, solitamente difficile da riempire, e che in questa occasione ha attirato anche spettatori extra muros.

Emilio Solfrizzi ha preso il testimone di una tradizione attoriale inarrivabile, con pagine scritte nell’albo d’oro da Buazzelli, Valli, De Filippo, Bosetti e, al cinema, da Sordi: interpretazioni mitiche i cui echi sono riportati dalle cronache di qualche anno fa. Sagacemente Solfrizzi si è mosso su un binario originale, senza lasciarsi influenzare, o intimidire, dai gloriosi passati di questo titolo, riuscendo così ad apportare un proprio valore al ruolo. Tra i meriti di Solfrizzi, innanzitutto, la misura. Le sue esternazioni sono state buffe ma non clownesche, marcate ma non caricaturali, paradossali ma non grottesche nel delineare un malato fuori dalle righe eppure reale e credibile. E poi, la capacità di creare, con genuinità espressiva, sfaccettature caratteriali, di venare l’ironia con una sfumatura di tristezza e condirla con una spruzzata di teatro dell’assurdo di cui Molière fu illuminato precursore. Sotto la guida del regista, l’attore ha trovato il giusto compromesso tra insensatezza e verità, vestendo i panni di un Argante giovane e vigoroso, al di là di paure e manie, risultato vicino alla sensibilità del pubblico odierno il quale ha riso alle battute del personaggio e ha applaudito la contagiosa vena comica dell’attore.

Accanto a lui, una compagnia bene affiatata, formata da Lisa Galantini, Antonella Piccolo, Sergio Basile, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Pietro Casella, Maria Chiara Dimitri, Cecilia D’Amico, Rosario Coppolino, Luca Massaro. Il regista Guglielmo Ferro ha suddiviso il cast in due immaginari gruppi, scelta che ha favorito l’esito dalla natura multisfaccettata di cui si diceva. Abbiamo trovato da un lato le figure attinte alla realtà, come la moglie Belinda scocciata dal marito dispotico, la figlia Angelica sottomessa al padre ma certa dell’amore per Cleante, l’altra figlia remissiva Luigina, il fratello affezionato Beraldo, la serva sfrontata e dalla lingua tagliente Tonina, l’unica alla quale si può imputare qualche eccesso macchiettistico tuttavia capace di dare ritmo all’intera azione scenica. A far da contraltare erano due ‘maschere’ estrapolate dalla commedia dell’arte: il sostituto del dottor Purgone, il medico Diaforetico accompagnato dal figlio Tommasino, splendidamente caricaturale nell’immagine oltre che nell’espressività attoriale farcita, come il linguaggio, di fronzoli e “latinorum”.

A dare il conclusivo tocco registico, l’apparire in scena, come nuovi interlocutori di Argante, di alcuni burattini di cartapesta (la cui paternità creativa non viene indicata ma sospettiamo essere anch’essi frutto dell’ingegno di Santuzza Calì). I pupazzi ci hanno ricordato che il teatro è finzione, ma che il mondo è una commedia. E che le difficoltà e le paure della vita non vanno rifuggite come malattia e risolte al suon degli inutili clisteri del dottor Purgone, ma affrontate con un sorriso. Meglio, con una risata.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova il 18 gennaio 2023
Contributi fotografici Francesco Consolini