Un allestimento valido sotto ogni aspetto ha riportato il capolavoro di Jules Massenet al Teatro Filarmonico di Verona, dopo ben 45 anni dalla sua ultima e sola rappresentazione in questo teatro, attirando tra il pubblico anche qualche “orecchio doc”. Un Werther eseguito in lingua francese originale (per quanto la prima rappresentazione nel 1892 sia avvenuta nella traduzione tedesca), d’impronta stupendamente intima e raccolta, nell’ambito di un impianto scenico basato su spazi di largo respiro.
L’intelligente intuizione registica di Stefano Vizioli era nata per il circuito di OperaLombardia nel primo autunno di covid, assecondando quindi le regole del distanziamento di allora ma che – chapeau – ha rivelato la sua efficacia anche nel post pandemia. Questo perché, come si legge nelle sue note «l’ordine era categorico: i cantanti non si possono toccare, non si possono baciare… intanto avevamo il dovere di commuovere». E toccante è stata la sua regia, che ha scavato all’interno dell’animo dei personaggi.
Come è noto, i librettisti Blau, Milliet e Hartmann hanno tratto ispirazione dal romanzo epistolare di Goethe I dolori del giovane Werther, pietra miliare dello Sturm und Drang. Così, la scena (di Emanuele Sinisi) era costituita da un foglio da lettera stropicciato che occupava tutto il fondale, con uno degli angoli inferiori incurvato a creare un piccolo scivolo sul pavimento. Sulla carta si sono materializzate brevi frasi (video multimediali di Imaginarium Creative studio). Tenere reminiscenze del passato affiorate alla mente di Charlotte ormai anziana e ridotta su una sedia a rotelle, rimasta sola in compagnia dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Materializzatisi a iniziare dalla luna che sempre accompagna il nascere degli amori, anche quelli destinati a non sbocciare. Ma l’inchiostro con cui erano vergate le frasi sul grande foglio era destinato a liquefarsi, cancellando le parole e trasformandole in lacrime.
Nulla di pesantemente concettuale, quindi, bensì di emozionale. Nulla di complicato da elaborare per lo spettatore (evviva!) in favore della dirompente efficacia della linearità del pensiero registico, tradotto concretamente sul palco con altrettanto nitore, tenendo egualmente presenti sia Goethe sia Massenet. Coadiuvato dalle luci (di Vincenzo Raponi) che hanno dato tocchi di colore al piano inclinato apertosi sul fondo, e dai costumi dalle linee essenziali (di Anna Maria Heinreich) Vizioli ha magnificamente asciugato la messa in scena utilizzando pochissimi oggetti e dettando gesti attoriali misurati ma non scarni: «gli occhi cantano quei sentimenti sconfessati dalle parole» ha aggiunto Vizioli. Il quale ha scandagliato la natura dei personaggi, guidandoli tutti a formare lo struggente flusso di ricordi di Charlotte, e riconducendo alla sua essenza più profonda il tormento dell’amore negato cantato in questo drame lyrique. Una solitudine d’animo poetica in quanto potentemente evocativa dei sentimenti.
A dirigere, un maestro di vasta esperienza al suo primo podio veronese, Francesco Pasqualetti, il quale ha seguito questa produzione fin dal suo esordio nel 2020. Pasqualetti ha dato risalto alla raffinatezza della varietà strumentale messa in campo da Massenet, soffermandosi con sincerità emotiva sulla vena romantica del compositore, pienamente corrisposta dai professori dell’Orchestra Arena di Verona, a iniziare dal suggestivo ed evanescente Clair de lune.
Il cast tutto ha ottimamente risposto alle aspettative. In quello che è uno dei cavalli di battaglia del repertorio tenorile, che culmina nella famosa “Pourquoi me réveiller”, abbiamo applaudito Dmitry Korchak, che ha donato a Werther uno sfaccettato travaglio interiore. Il tenore russo ha fatto ampio sfoggio della potenza della voce, mantenendola ben salda per tutta l’opera senza cedimento alcuno, e sapendo trovare anche le giuste torniture, favorite dalla bellezza del timbro e dal fraseggio espressivo.
Per una sola delle quattro recite il soprano Chiara Tirotta ha egregiamente vestito i panni di Charlotte, tanto dolente come richiesto dal personaggio, quanto vivace nella vasta gamma di colori e sfumature che ha espresso nel canto, passando da pagine intrise di dolcezza a momenti di intensa drammaticità.
Incisivo musicalmente e pure scenicamente nell’esternare i sentimenti contrastanti che accompagnano Albert, era il baritono Gëzim Myshketa, elegante nella linea di canto e dalla voce di levigata potenza, capace di intenerirsi nel rivolgersi a Charlotte, ma anche di cadere preda dello sconcerto quando capisce che la donna ha mantenuto la promessa di sposarlo pur essendo innamorata di Werther.
Alle solide certezze di Gabriele Sagona e Matteo Mezzaro, “sottoimpiegati” nei ruoli di fianco degli amici ebbri di vino Johann e Schmidt, si sono affiancate le giovani voci del soprano Veronica Granatiero, che ha destreggiato con freschezza e solida tecnica il ruolo di Sophie, e del baritono Youngjun Park che ha ben figurato nella parte di Le Bailli (il Borgomastro). Degni di nota i giovani emergenti Maria Giuditta Guglielmi e Pierre Todorovitch come Käthchen e Brühlmann. A dare un tocco di spensierata gioiosità, anche i sei più piccoli figli del Borgomastro, interpretati dai bravi solisti del Coro di voci bianche A.Li.Ve. adeguatamente preparati da Paolo Facincani.
La primavera 2023 al Teatro Filarmonico prosegue con la ricca stagione concertistica, mentre l’opera dà appuntamento al prossimo ottobre, dopo il Festival lirico estivo all’Arena di Verona.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 29 marzo 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona