Regnano il nero e le luci basse nel retro del palcoscenico ricreato al Teatro Regio di Parma per accogliere il prim’atto dell’opera di Francesco Cilea. Adriana Lecouvreur mette in scena la scena, è il teatro che rappresenta se stesso. Non è la sola opera a farlo, ma lo fa con verosimiglianza psicologica: apre una finestra sul mondo dietro le quinte e sulla vita dei teatranti per i quali la finzione attoriale si sovrappone alla vita reale. A volte con crudeltà celata dietro il soave ma venefico profumo di un mazzolino di violette.
Un affollato camerino, uno specchio, un divanetto e il sipario rosso visto dall’interno, dal lato di chi esibisce la propria arte, a portare un tocco di colore oltre che costituire una labile intercapedine tra verità e recitazione. Questo, l’impianto di sempreverde efficacia (scene di Emanuele Sinisi) prescelto dal regista Italo Nunziata per Adriana Lecouvreur proposta al Teatro Regio di Parma dopo 42 anni di assenza del titolo, nell’allestimento in coproduzione con Teatro Comunale di Modena e Teatro Municipale di Piacenza, dove lo spettacolo aveva già fatto apprezzate tappe. A dare un tocco di vitalità e altro colore, i costumi curati nei minimi dettagli (di Artemio Cabassi) che hanno traghettato la vicenda negli anni 50, ossia in un’epoca che le riviste di allora ci descrivono in bianco e nero, abilmente scolpito dalle luci (di Fiammetta Baldiserri).
Italo Nunziata ha approcciato il libretto scritto da Arturo Colautti attingendo al dramma di Scribe e Legouvé, avendo ben presente che Adriana era un personaggio storico realmente esistito. Si è soffermato pertanto sulla natura dei personaggi e in particolare della protagonista, un’attrice che fatica a disgiungere vita e teatro. Lo stesso teatro, inteso come edificio, con gli ambienti brulicanti di colleghi e di ammiratori, di maestranze tecniche al lavoro, è un microcosmo; è un luogo della scena dove scorre la vita vera. Adriana non è in grado di gestire il suo mondo fuori dalla culla conosciuta e rassicurante che è il palcoscenico, dove il finale delle commedie è noto e non si può cambiare. Adriana non sa reagire all’imprevedibilità del destino, che riserva spesso dei “fuori copione”. Una discrepanza, tra l’attrice e la donna, che provoca in lei dapprima turbamenti, poi un vero e proprio scollamento psicologicamente devastante. Il regista Nunziata si muove entro questi confini sicuri, prevedibili e non innovativi, ma lo fa bene, senza inutili sovrastrutture, con sguardo schietto.
Sul podio dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini è salito, come direttore e concertatore, Francesco Ivan Ciampa. Il maestro possiede la dote di affrontare le partiture con una visione fresca e attenta al dettato; di questo in particolare ha esaltato l’architettura armonica, riservando ampi respiri alle aperture liriche. Valorizzando, altresì, le infinite preziosità del compositore, quell’alternarsi di colori, tra tinte decise e sfumature, che Cilea ha profuso nel soggetto, che lo aveva intrigato in quanto collocabile a metà strada tra commedia e dramma. Elementi che Ciampa ha attentamente bilanciato, mantenendo alta la tensione senza cadere in appesantimenti, sia pure indulgendo a una certa esuberanza di volumi.
Maria Teresa Leva ha brillato specialmente nelle mezze voci e nei filati, facendo sfoggio di morbidezza di emissione e di suadente colore, tratteggiando Adriana Lecouvreur meno diva e più donna, approfondendone l’interiorità, le sue debolezze e la sua fragilità emotiva. Parallelamente, il tenore Riccardo Massi, d’acuto limpido e linea di canto assai omogenea, ha puntato sulla superficialità sentimentale propria di Maurizio, personaggio che di per sé, indipendentemente dall’interprete, stenta a risultare attraente.
Un nome illustre al debutto nel ruolo era quello di Sonia Ganassi, che ha cesellato con ricercatezza e incisività il fraseggio, e amministrato saggiamente la linea di canto, costruendo con studiata esperienza la figura della rivale di Adriana, la Principessa di Bouillon, della quale il mezzosoprano ha fatto scorgere il freddo cinismo ma anche le ragioni che lo determinano, rendendo così il personaggio vero e credibile.
Altro nome illustre e voce di prim’ordine unita alla presenza carismatica, Claudio Sgura ha proposto un Michonnet di grande dignità nel reprimere il suo sentimento verso Adriana, nel trasformare la passione in un affetto profondo, protettivo, fatto di piccoli grandi gesti di attenzione. Sgura ha sfoderato e gestito al meglio le sue doti migliori: la solidità del mezzo vocale, il timbro di aristocratica eleganza e una proiezione capace di far correre il canto, sgorgato con commovente intensità.
Puntuali musicalmente e ben delineati sotto il profilo attoriale il Principe di Bouillon di Adriano Gramigni e L’abate di Chazeuil di Saverio Pugliese. A completare degnamente il cast Stefano Consolini, Poisson; Steponas Zonys, Quinault; Vittoriana De Amicis, Mademoiselle Jouvenot; Carlotta Vichi, Mademoiselle Dangeville; inoltre Damiano Lombardo Maggiordomo. Ineccepibile nel suo breve intervento il Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani. Da menzionare infine la gradevole parentesi coreografica ideata da Danilo Rubeca, pure assistente alla regia.
La recita di venerdì 24 marzo 2023 è stata trasmessa in diretta sul portale gratuito operastreaming.com, dove resta disponibile per sei mesi dalla messa in onda.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 31 marzo 2023
Foto Roberto Ricci per Teatro Regio Parma