Trionfo, ovazioni e pubblico in delirio per Gregory Kunde al Teatro Regio di Parma. Si è rinnovata la magia dell’allestimento di Franco Zeffirelli.
Non ce ne voglia, di lassù, il Maestro Zeffirelli cui va attribuita buona parte del merito dello spettacolo, ma questo è stato il Pagliacci di Gregory Kunde. Il tenore ha scritto una pagina indimenticabile di teatro, accolta dal pubblico in visibilio.
Partiamo dall’inizio, ossia dal contesto: dal capolavoro (la parola è scontata però va detta) ideato da Franco Zeffirelli nel 1992 e che da allora miete successi da una parte all’altra dell’orbe terracqueo. Una regia di vecchia Scuola? No! Attuale nella sua intramontabilità, orgogliosamente descrittiva e capace di suscitare, ogni volta, il ben noto “effetto wow”. Il che, non è impresa da poco, e difatti riesce molto raramente ai suoi colleghi. Ciò che ha sempre contraddistinto il compianto regista è il suo innato senso del teatro che ammalia senza astruserie, senza quei pedanti intellettualismi che appagano solo l’ego dei registi poco bravi e non il pubblico. Zeffirelli il pubblico lo ha sempre saputo irretire fin dall’apertura di sipario, con schiettezza. E diciamolo, è bello, anzi è quasi un atto liberatorio nel panorama odierno invaso da allestimenti votati a strapazzare i compositori, che l’occhio veda la stessa cosa che l’orecchio sente, che la parola dice, che la musica descrive, che l’animo desidera. Zeffirelli non ha mai avuto bisogno di inventare nulla, men che meno di reinventare se stesso: Zeffirelli, semplicemente, “è” Zeffirelli.
Così Pagliacci è tornato a sprigionare la sua magia, a far sfavillare i suoi colori e a sprizzare i suoi lustrini nell’allestimento realizzato in collaborazione con la Fondazione Zeffirelli, che il Teatro Regio di Parma ha inscenato per celebrare il centenario della nascita del Maestro. Ci siamo pertanto trovati, ancora una volta, in una piazza iperaffollata, tra clown e prostitute dalle calze a rete, tra carabinieri in divisa e travestiti inerpicati su tacchi a trampolo (costumi Raimonda Gaetani), tra motociclisti in groppa a Vespe scassate e spose col corteo nuziale al seguito, tra casalinghe intente alle faccende quotidiane e una moltitudine di bambini irrequieti. Una compagine a dir poco eterogenea alla quale si è unito un gruppo di acrobati circensi, in questo spettacolo risultati particolarmente bravi. Un mondo caotico diventato un poco confusionario, ma sempre affascinante, nella ripresa registica di Stefano Trespidi (con le luci Andrea Borelli).
Nelle scenografie anch’esse a firma Zeffirelli (riprese attentamente da Carlo Centolavigna), il carrozzone di guitti, dei Pagliacci per l’appunto, ha fatto tappa nell’angusto spiazzo di una periferia degradata, dove affacciavano un’officina meccanica e un condominio popolare. Dalle porte aperte sulle balconate a ringhiera dell’edificio si intuivano gli interni delle abitazioni, con i lampadari dalle luci fioche e con le TV accese. Peccato che si trattasse di moderni schermi piatti, tuttavia va lodato il fatto che alcuni trasmettessero autentici programmi televisivi in bianco e nero degli anni Sessanta, anno in cui Zeffirelli ha ri-ambientato la vicenda scritta e musicata da Ruggero Leoncavallo. Il quale, è arcinoto, si era ispirato a un fatto di cronaca nera realmente accaduto nel 1865 a Montalto Uffugo, paesino calabrese dove il padre del compositore era magistrato. Il solito fattaccio di corna, non fosse per la particolarità che il tradimento, nella realtà, si è sovrapposto al tradimento recitato dai saltimbanchi. E dove la gelosia e l’onore calpestato sono sfociati in una cieca furia omicida di tragica attualità anche ai nostri giorni.
Sul podio dell’Orchestra dell’Emilia Romagna ‘Arturo Toscanini’, concertatore e direttore, è salito Andrea Battistoni, a privilegiare atmosfere dalle tinte splendidamente accese, con dinamiche vivaci e volumi decisi – che mai hanno sovrastato le voci – e con ampie aperture liriche. È stato come se, musicalmente, Battistoni avesse acceso un riflettore sui personaggi, lavorando sui netti contrasti chiaroscurali dei commedianti abituati a ridere anche quando il loro cuore è spezzato; su esuberanze cromatiche magnificamente venate di cupezza; su quegli slanci sanguigni e/o poetici di un verismo che, per il direttore, è memore del romanticismo.
Medesima linea interpretativa, proceduta per chiaroscuri, è stata seguita dal cast tutto, non solo nell’insieme ma anche singolarmente. Iniziando dallo stupendo Gregory Kunde (Canio, nella commedia Pagliaccio). Il suo “Vesti la giubba” (= “Ridi, Pagliaccio”) è stato bissato a seguito delle richieste fioccate da un pubblico entusiasta ai limiti del delirio. Stima meritata. Il bis, se possibile, ha superato in pathos la prima esecuzione: davanti al sipario chiuso per l’intervallo, abbandonati i gesti scenici, Kunde ha messo a nudo la solitudine dell’uomo, illuminato unicamente da un ‘occhio di bue’ che è parso acuire il suo isolamento, il suo spaesamento. Il viso segnato da tre strisciate di biacca e il cuore devastato di innamorato tradito, anzi, di un maschio padrone al quale è stata sottratta la donna che credeva di sua proprietà. E che si è ritrovato spiazzato, perso nel nulla che gli si è creato interiormente, svuotato dall’immensità di un dolore insopportabile, che ha fatto terra bruciata dei sentimenti e lo ha spinto a gesti inconsulti. “Vesti la giubba” è stata il vertice, e anche la summa, della linea interpretativa di Kunde che, con grande intelligenza musicale, ha saputo osare. Forte delle doti tecniche ed espressive maturate in una carriera assai lunga e giunto a una età anagrafica più che matura, il tenore statunitense non ha esitato a puntare sulla drammaticità del canto, sulla voce solidissima incrinata a bella posta, ad arte, in singhiozzi laceranti resi credibili dalla straordinaria ricchezza di armonici. E poi quei meravigliosi respiri tradotti in legati da manuale, che hanno dato autentico significato alla parola ‘fraseggio’. Il pubblico, col groppo alla gola, ha ascoltato in un silenzio quasi religioso, assorbendo quell’atmosfera sospesa, quel dibattersi di sentimenti, quello strazio che più strazio non si poteva, magistralmente creato da Kunde.
Altro “cavallo” di razza, dal canto nobile ed elegante, Vladimir Stoyanov al debutto nel ruolo (Tonio, nella commedia Taddeo lo scemo) ha delineato attentamente un personaggio dall’indole scellerata, rancoroso, vendicativo e proprio per queste caratteristiche profondamente vero. La voce ha morbidamente ‘corso’ fin dal celeberrimo “Prologo” che apre l’opera e su cui ricade il peso di accendere, a freddo, tutta la tensione drammatica che si scatenerà di lì a poco. Cosa che il baritono bulgaro ha concretizzato senza difficoltà.
Valeria Sepe (Nedda, nella commedia Colombina) ha sfoggiato un timbro gradevole e una voce che, anche se inizialmente vibrata, si è fatta smaltata nei registri acuti, di bella limpidezza. Anche il soprano ha puntato molto sull’espressività del personaggio, forse risultando la più didascalica nella gestualità, riuscendo a guadagnarsi meritati apprezzamenti. Di valore le prove di Alessandro Luongo (Silvio, contadino) dalle dolci morbidezze, e di Matteo Mezzaro (Peppe, nella commedia Arlecchino) che ha eseguito una suggestiva “Serenata”. Da lodare sia per la preparazione vocale, sia per l’impegno profuso sul palco, gli interventi del Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, e del Coro di Voci Bianche sempre del Regio,preparato da Massimo Fiocchi Malaspina.
Il titolo ha chiuso la Stagione lirica 2023 al Teatro Regio di Parma. Prima della nuova stagione, l’appuntamento è in autunno con il Festival Verdi (vedi qui).
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 12 maggio 2023
Foto: Roberto Ricci