Due cast: Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Olesya Petrova, dir. Marco Armiliato. E poi Anna Pirozzi, Gregory Kunde, Clémentine Margaine, dir. Daniel Oren.
LA SERATA INAUGURALE DEL FESTIVAL 100
Audrey Hepburn, nelle vesti di Sabrina nell’inimitabile film di Billy Wilder, sosteneva che per vedere Parigi, la prima volta, fosse indispensabile un poco di pioggia. Alla serata inaugurale del festival areniano numero Cento, Verona si è presentata romanticamente come la Parigi cinematografica, con il suo teatro fra i più grandi al mondo sotto le stelle, e sotto una piccola nuvola. Solo qualche goccia, per aggiungere un coup de théâtre naturale a quelli che di lì a poco avremmo visto sul palcoscenico. Pochi minuti durante i quali gli orchestrali hanno protetto i loro delicati strumenti e i tanti vip che pullulavano in Arena in questa serata speciale – politici, gente di spettacolo, attori, cantanti di musica leggera, presenzialisti – si sono rifugiati sotto gli arcovoli carichi di storia, dando vita a una “passerella” fuori programma. Giusto il tempo per dimostrare al mondo intero collegato via tv che l’Arena è unica in tutto, e in tutto magica e affascinante.
Come si diceva, la serata ha scandito l’inizio del festival numero Cento, “100 volte la prima volta” (dieci anni or sono invece si erano festeggiati i cento anni da che il tenore e impresario Giovanni Zenatello immaginò, nel 1913, di adibire a teatro d’opera quello che al tempo era solo un monumento romano. Da allora, le stagioni si sono interrotte solo due volte, in occasione delle due Guerre mondiali, ma non per il covid, sfasando così la numerazione). La lieve pioggerellina è parsa anch’essa aver graziosamente seguito un invisibile spartito, tanto è caduta ad hoc nel separare i due momenti, mondano e musicale; ossia prima dell’inizio di Aida, aumentando la fibrillazione per l’attesa, e dopo la bagarre televisiva della mondovisione, condotta da Milly Carlucci con Alberto Angela e Luca Zingaretti, e l’affettuosa standing ovation tributata a Sophia Loren, madrina della serata giunta al braccio del Ministro Sangiuliano, la quale, va ricordato, ha all’attivo due Premi Oscar, una stella sulla Walk of fame hollywoodiana e una infinità di riconoscimenti internazionali.
Non solo Giove pluvio si è mosso ‘da spartito’. A sorprendere dal cielo con un tempismo che ha avuto dell’incredibile, degno di un’orchestra ben diretta, sono state le Frecce Tricolori, vanto nel mondo della nostra Aeronautica Militare e dell’Italia tutta, che con un sorvolo mozzafiato hanno steso l’eterea bandiera italiana sopra i marmi l’anfiteatro che stavano assumendo la colorazione rosata del tramonto. Sul palcoscenico il coro, con tuniche bianche rosse e verdi, ha intonato l’Inno di Novaro (chiediamo venia: chi scrive proprio non ce la fa a chiamarlo Inno di Mameli, che era il paroliere, mentre la musica è stata composta da Michele Novaro: sarebbe come dire l’Aida di Ghislanzoni).
LA NUOVA AIDA FIRMATA STEFANO PODA
CAST SERATA INAUGURALE: NETREBKO, EYVAZOV, PETROVA, ARMILIATO
Finalmente ecco gli attesi colpi di gong a scandire l’inizio dell’opera. Aida di Giuseppe Verdi. E Aida di Stefano Poda, che ha apposto il proprio marchio distintivo alla nuova produzione che Fondazione Arena di Verona, con il Sovrintendente Cecilia Gasdia, ha commissionato per questa speciale ricorrenza. Anche Stefano Poda, artista acclamato nei più importanti teatri internazionali, era alla sua centesima regia, e ha immaginato una Aida tecnologica, futurista, dove una poderosa macchina scenica è stata accompagnata dall’immaterialità delle luci.
Una regia molto discussa da giornalisti e critici, dal pubblico presente nell’anfiteatro, da quello che ha seguito dai televisori di casa o dagli schermi installati nei quartieri della città, dai frequentatori dei social. Un punto a favore, perché le discussioni nascono a seguito della vivacità della proposta: la loro assenza indicherebbe una noia da sbadiglio. Chi scrive queste note fa parte dei tanti che hanno grandemente apprezzato, pur con qualche titubanza, questa “installazione site-specific” che ha superato le divisioni tra generi artistici. Una concezione registica proceduta per concetti universali, adattabili ad altri contesti, oltre che a Verdi. Questo è stato forse il punto che ha destato le maggiori perplessità. L’ennesimo kolossal? Sì, certo, con orgoglio italiano e specificamente areniano, perché la spettacolarità qui è di casa e solo qui può trovare declinazioni altrove impossibili. Senza dimenticare che lo stesso Verdi, pur dubbioso nell’accettare l’incarico, era consapevole che gli fosse stato commissionato un progetto «splendido di mise en scene». Senza scordare altresì che la lirica è stata per secoli un genere popolare, di massa come d’élite senza distinzione alcuna, e tale è giusto che rimanga nel presente e nel futuro. A ciò, innanzitutto, applaudiamo.
Una gigantesca mano meccanica reticolare ha costituito il fulcro della scena, e le sue dita si sono lentissimamente protese verso il cielo per poi abbassarsi sui protagonisti. La mano del dio, così come dell’uomo, può creare oppure distruggere. Le mani, al plurale, hanno sostituito le tradizionali insegne egizie formando una foresta semovente di invocazioni alle divinità o di manifestazioni del potere terreno, tramutate in pugni chiusi di lotta al termine della battaglia che vede Radamés tornare “vincitor”.
Poda, abile tuttologo, ha curato in prima persona qualsiasi aspetto dell’allestimento, dalla regia alla scenografia; dalle luci fumose di incensi rituali, costellate da effetti laser e ricche di magnifici “tagli” in controluce con cambi effettuati di scatto, a tempo di musica, anche se la rispondenza gesto/musica dovrebbe essere ben altro dalla pura e semplice sincronia: dovrebbe essere rispondenza tra il gesto e quanto la musica esprime. Poi i costumi, forse l’elemento in assoluto più bello per la ricercatezza dei materiali utilizzati, dalle perline ai frammenti a specchio, ai ricami, ai tessuti metallici tintinnanti. Dubbi invece ha sollevato l’intervento diretto del regista sugli embrioni coreografici, di un minimalismo simbolico forse spinto all’eccesso.
A questo punto, dobbiamo fare un passo indietro. A Poda va riconosciuto innanzitutto il merito di aver soppresso, proprio in Arena, il Trionfo con tutto lo stucchevole sfarzo cartolinesco che solitamente si porta dietro. Altri prima di lui lo avevano fatto, ma mai in un teatro come questo che, come si diceva, possiede anche una rispettabilissima anima nazional-popolare. Tuttavia al posto del Trionfo sottaciuto ci si sarebbe aspettati un alcunché meno scarnificato. La sostanza c’era ma era celata dietro un apparente assenza, necessitante di una astrusa decodifica da parte del pubblico. Poda infatti è famoso per le sue regie concettuali, spesso difficili da decifrare, costellate da un gran numero di riferimenti e di simboli.
Pertanto d’ora in avanti il condizionale, da parte di chi scrive, è d’obbligo, non solo perché la de-criptazione del pensiero Podiano non è sempre lineare, ma anche perché, ed è un grande pregio, non è univoca. Procedendo infatti per concetti universali, molto è demandato al ragionamento dell’osservatore, alla sensibilità del singolo spettatore. Personalmente, riteniamo che il fil rouge del disegno registico fosse mettere in scena il tempo, o per meglio dire la confutazione del tempo. Il suo scorrere nei secoli che si traduce in immutabilità, che trasforma il passare dei minuti, e il loro ripetersi meccanico, in una bolla spazio-temporale.
Ai due lati della scena si trovavano la colonna di un tempio antico spezzata in diversi blocchi e, specularmente, alcuni residui di civiltà post-industriale, forse frammenti di un’astronave distrutta in un apocalittico armageddon. Nel mezzo, tra il passato e il futuro, tra l’inizio e la fine della Storia, scorreva il tempo di Aida. Un concetto quindi riconducibile, molto liberamente e non senza una buona dose di immaginazione, al filosofo Immanuel Kant e alla sua idea di spazio e di tempo (poi confutata da Einstein) che pressappoco recitava così: «La simultaneità o la successione non potrebbero neppure mai costituirsi come percezioni se non ci fosse a priori … la rappresentazione del tempo»
Pertanto, i non-balletti del non-trionfo sono stati improntati alla ricerca congiunta di simultaneità e successione. Il gruppo compatto di danzatori si è limitato a scarni movimenti di scatto delle braccia divenute lancette; movenze rituali che hanno scandito meccanicamente il tempo, e al contempo assecondato la ricerca stilistica degna di un designer, delle linee, che si è riscontrata anche nei fasci di luci laser, nelle piramidi trasparenti simil Louvre ma di dimensioni bonsai e studiatamente sghimbesce, nelle posizioni assunte dalle masse.
Il ragionamento sulla regia, da parte di chi scrive, vira nuovamente verso Kant. Secondo il filosofo i singoli, nella nostra percezione, formano degli insiemi collocati nello spazio. Poda ha disposto le masse – coro, danzatori, mimi, figuranti – a gruppi, a blocchi ordinati oppure a mucchi ammassati, o ancora in file indiane di figure pronte a cadere stecchite, a una a una, al passaggio di Aida. Alla quale, in tal modo, è stata data una centralità analoga nella portata, ma assai diversa nella sostanza, rispetto a quella musicata da Verdi, che la vedeva come la schiava etiope alla corte egizia, innamoratasi del condottiero nemico del suo popolo. Qui invece Aida è stata elevata all’universalità e all’astrattezza di un simbolo.
Gli agglomerati umani sono stati dapprima fagocitati nel sottosuolo, come anche le mummie dell’obitorio dove si bendavano cadaveri (chiaramente un altro elemento simbolico: se infatti è inverosimile che gli egizi riservassero tale procedura ai caduti in battaglia, è ovvio che Poda abbia messo in scena la morte utilizzando uno dei simboli egizi più identificativi di essa). In seguito, i gironi di anime sono fuoriusciti da fenditure della terra, con i corpi ricoperti da scritte in caratteri contemporanei a far da contraltare ai geroglifici stampati sugli altri costumi, proseguendo nell’operazione registica di decostruzione del concetto di tempo. In tale interscambio tra il tempo della vita e il tempo della morte, va sottolineata la perizia tecnica di Poda, riuscito a risolvere uno dei problemi che presenta il palcoscenico areniano così peculiare, adagiato sopra il terreno e perciò privo del sottopalco che possiedono i teatri tradizionali. Il regista, per creare l’intercapedine necessaria a installare botole, ha rialzato tutto l’impiantito del pavimento a specchio.
Schematizzata anche la scelta dei colori. È caratteristica frequente in Poda privilegiare il contrasto tra bianco e nero, cui ha aggiunto pochi sprazzi di rosso, anche sullo stesso viso di Aida (con buona pace dello stupido “al lupo al lupo” sul blackface che ha tenuto banco negli anni scorsi). E poi l’argento, tanto e tanto argento, sfavillante, addirittura abbacinante nell’espletare la missione di far immaginare il Trionfo. Il pubblico ha risposto con l’atteso ohhhh e con l’applauso alla ritrovata, tradizionale, rassicurante, spettacolarità. Cotanto baluginio accecante parrebbe nuovamente aver ricondotto a Kant, da cui Poda (torniamo al condizionale d’obbligo) potrebbe aver assunto il concetto dell’eliocentrismo, questo più di ogni altro calzante a Verdi. Un globo argenteo si è alzato quasi fosse un’astronave aliena, una bolla spazio-temporale come ci viene descritta nei film di fantascienza. Il globo metallico (ma il suo ondeggiare al vento ne ha smascherato la diversa natura) è sorto al vertice della piramide formata dai fasci di luci laser come un avveniristico e tecnologico sole, simboleggiato nelle decorazioni di molti costumi dall’occhio di Horus, dio che nell’antichità veniva venerato accanto a Ra proprio Eliopoli.
L’ultimo atto, in cui prevedibilmente la gigantesca mano meccanica si è richiusa sopra i due innamorati destinati a perire murati vivi dentro una tomba, si è aperto con Aida adagiata esanime in una piccola teca piramidale, indi rialzatasi per cantare un’ultima volta il suo amore a Radamés, il quale l’ha raggiunta entro l’urna di cristallo. Un destino quindi che il regista ha voluto non solo già scritto, ma anche già compiuto. Ancora una volta parafrasando liberamente Kant: è la caducità dei singoli a formare l’immortalità della vita.
Tanto discussa è stata la regia, quanto non lo è stata la parte musicale, indiscutibile per la qualità artistica degna della speciale occasione. Sul podio, Marco Armiliato ha impresso tempi fluidi, attenti al rapporto buca/palco. Sul podio dell’Orchestra dell’Arena di Verona, il direttore è riuscito innanzitutto nell’impresa di tenere assieme le voci, dei solisti come del Coro – splendidamente preparato per la prima volta da Roberto Gabbiani – che erano disposte in modo inusuale. Pertanto, una situazione acusticamente non semplice da gestire, che il direttore ha sfruttato con intelligenza attingendo alla ricerca di poli/stereofonia intrapresa da Giuseppe Verdi. Armiliato si è anche fatto carico di mantenere saldamente al suo posto primario Verdi, perpetuandone il genio con eleganza, senza indulgere a facili effetti bensì esaltando, e riscoprendo, la raffinatezza del dettato.
Tutte le voci, chi più chi meno, hanno dovuto fare i conti con la serata meteorologicamente impegnativa, non tanto per la breve pioggia quanto per il vento che ha sferzato l’anfiteatro a più riprese.
Ha superato in fulgore l’argento scenico di luci e lustrini, la stella Anna Netrebko, la quale, dopo un esordio guardingo, ha presto fatto risplendere tutta la sua esperienza e la sua maestria, le doti tecniche e interpretative. Iniziando dalla bellezza di un timbro di tale freschezza da aver catapultato anagraficamente all’indietro il pur ancora giovane soprano. Una voce luminosa composta di colori smaltati e cangianti, leggera come la piuma di un colibrì, pura come il bianco di una colomba. Aggiungiamo la morbidezza del timbro non di semplice velluto ma di velluto di seta, e quella capacità, tecnica ed espressiva assieme, di far “correre” la voce, di proiettarla magistralmente nell’anfiteatro, in modo tale da rendere magiche e indimenticabili le sue messe in voce, come anche le mezze voci culminate in sussurri paradisiaci. Il soprano russo naturalizzato austriaco è anche un’attrice di prim’ordine, ed è stata stupefacente la sua interpretazione di questa Aida, così profondamente diversa da quella che ha sostenuto nella passata stagione areniana. Netrebko infatti, più di ogni altro protagonista in scena, è riuscita, complice il fraseggio consapevole, a tarare il personaggio come inteso dalla regia, innestandovi il germoglio della personale sensibilità, superando il tradizionale ruolo dell’innamorata per divenire una presenza come si diceva dalla valenza universale nondimeno dalla intensa carica emozionale. Semplicemente stupenda, magnifica, stratosferica, ineguagliabile.
La rivale Amneris è stata dalla regia collocata in posizione defilata, quasi una presenza accessoria. Non è stato quindi semplice per Olesya Petrova dare alla figlia del Faraone la meritata incisività, ritagliandosi il ruolo della rivale in amore, causa anche un copricapo che non metteva in risalto il suo bel viso. Il mezzosoprano non era in una delle sue serate migliori, tuttavia la voce è sgorgata bella e ben timbrata, i suoi registri bassi erano torniti e gli alti svettanti.
Il tenore azero Yusif Eyvazov (ci sia perdonata la stucchevole ripetizione di gossip: compagno di scena e anche di vita di Netrebko) ha tratteggiato Radamès con un bel fraseggio e una linea di canto attentamente studiata, mirata alla raffinatezza, senza voler strafare in quella potenza tenorile che c’è e che, se ben giostrata come in questo caso, emerge senza forzature, indulgendo in mezze voci e sfumature, palesando uno stile tale da aver surclassato la scarsa avvenenza del timbro. Il suo personaggio è apparso schietto nel gestire una situazione amorosa improntata al dubbio, eroico d’indole, ben centrato dal punto di vista attoriale.
Roman Burdenko era Amonasro, abbigliato in una grintosa tuta da motociclista ma non altrettanto energico nel canto. La voce è bella e solida, però anche il baritono non era in “serata si”. Le doti c’erano tutte ma il personaggio, complice la regia, ha stentato a trovare completa messa a fuoco, risultando appannato. Notevole Michele Pertusi come Ramfis, ruolo sostenuto con la consueta professionalità, con accenti nobili e lodevole proiezione, e un punto di merito alla sacerdotessa Francesca Maionchi, che ha sputo ammantare il suo canto d’un appropriato alone di mistero, avvolta in uno splendido abito bianco con enorme sbuffo sulla schiena. Particolarmente apprezzata la vocalità levigata e di spessore di Simon Lim nei panni del Re. Puntuale il Messaggero Riccardo Rados, che ha degnamente completato il cast.
Questo nuovo allestimento di Aida replica, alternando diversi e importanti cast, fino all’8 settembre 2023.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona nella serata inaugurale il 16 giugno 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona
CAST ALTERNATIVO: PIROZZI, KUNDE, MARGAINE, OREN
Sotto l’impalpabile piramide di luce sormontata da un globo argenteo sole/astronave, si sono alternati molti interpreti di assoluto valore nel corso delle tredici repliche di Aida, nel nuovo allestimento firmato Stefano Poda di cui abbiamo riferito qui sopra. Una programmazione intelligente, che ha permesso ai melomani più esigenti di raffrontare star di primissimo piano.
In due affollate date,Anna Pirozzi ha vestito i panni della principessa etiope, schiava alla corte egizia. Tessendo un paragone con le nostre righe inerenti la serata inaugurale, è apparsa evidente la diversità stilistica dei due soprani: due prove profondamente differenti ma entrambe di eguale valore qualitativo, nulla meno che eccellente.
Anna Pirozzi possiede una voce immensa: solida, corposa, di limpida impetuosità e di entusiasmante potenza, quest’ultima intesa sia nel significato di fiato che di resa espressiva, autenticamente drammatica. Con sfoggio di accenti il soprano napoletano ha scavato nel profondo del personaggio di Aida, dotandola di temperamento e di una granitica forza interiore.
Forse più degli altri colleghi, Gregory Kunde ha risentito della temperatura rovente (alle ore 15 i termometri stradali a Verona segnavano 43 gradi, ridottisi a 42 alle ore 18, ed è risultata quasi del tutto assente la fresca brezza che solitamente avvolge l’anfiteatro negli ultimi atti). Di conseguenza l’esordio del tenore statunitense è risultato un poco affaticato. Gap superato in breve tempo: la voce è presto sgorgata limpida, e l’acuto saldo e ben poggiato anche quando, per precisa scelta stilistica improntata all’eleganza, è stato chiuso smorzandolo con sopraffina perizia tecnica. E poi i legati, da manuale come il fraseggio, per delineare Radamès, sensibile innamorato e combattivo capitano egizio.
La principessa egizia Amneris era il mezzosoprano francese Clémentine Margaine che, partendo dalla “base” di un’indole fredda e calcolatrice,ha evoluto il personaggio, trasformando l’alterigia regale in rabbia impotente per l’amore disatteso. Accurata l’analisi compiuta sul fraseggio, la voce dal colore bronzato è risuonata corposa e omogenea.
All’esordio a Verona nel ruolo di Amonasro era il baritono francese Ludovic Tézeier, già applaudito su queste colonne in Rigoletto (vedi recensione qui) e nel Gala Kaufmann (vedi recensione qui) e protagonista pure in Traviata. Tézier, come già scritto, è artista di eccelsa raffinatezza e avvezzo a cesellare il canto in ogni dettaglio. Magnifici, in questa occasione, i repentini mutamenti espressivi dall’amorevolezza unita alla fermezza del padre, fino all’indomita fierezza guerriera del Re Etiope.
Bene i ruoli di contorno: il Re degli Egizi Romano Dal Zovo; il sacerdote Ramfis Rafał Siwek; il Messaggero Riccardo Rados; la Sacerdotessa Yao Bohui. Il Coro, preparato da Roberto Gabbiani, ha anch’esso risentito della temperatura da forno, risultando meno preciso del consueto per quanto sempre vocalmente a fuoco.
Sul podio è salito l’infaticabile maestro Daniel Oren, indubbiamente una delle colonne portanti di questo Festival areniano numero 100 (come in molte edizioni passate). Un abbinamento perfetto tra due temperamenti pronunciati, il suo e quello del soprano, che hanno trovato comunione di intenti. Sempre attento sia a sorreggere al meglio le voci, sia a porre in risalto ogni sfumatura della partitura, Oren si è profuso in impeti eroici risolti con incisività di classe, senza cadere nella trappola dei facili eccessi magniloquenti, e larghe anse poetiche dove lasciar correre i sentimenti. Ancora una volta: bravo Maestro.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 23 agosto 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona