L’occasione era imperdibile: il testo Peer Gynt di Henrik Ibsen non viene rappresentato frequentemente ed è un’autentica rarità nella versione con le musiche composte da Edvard Grieg eseguite da un’orchestra dal vivo. A uscire vincente da questa impresa, impegnativa sotto ogni punto di vista, è stata la Fondazione Teatro Due di Parma nel contesto prestigioso del Reggio Parma Festival 2023. Lo spettacolo, in prima nazionale, è andato in scena con successo di pubblico in una nuova drammaturgia che ha condensato in due ore e mezza l’originale mastodontico testo ibseniano del 1876 (di oltre cinque ore, quasi sei). Una carrellata narrativa proposta senza intervallo nell’Arena Shakespeare, un moderno anfiteatro sopraelevato e sotto le stelle: elemento che in questa circostanza ha aumentato il clima fiabesco. Infatti Ibsen si ispirò alle imprese di un avventuriero realmente esistito, attingendo anche alle saghe nordiche, al mondo dei trold e delle creature incantate.
Quello di Ibsen è un poema drammatico sull’identità umana e sui rapporti di “complicità sociale” e il regista Daniele Abbado è riuscito nell’intento di racchiudere sotto un unico “cielo” il lirismo, il mistero, la magia che pervadono l’esistenza di Peer. Un substrato di leggerezza reso materico da elementi visivi attuali, traducendo le antiche credenze e tradizioni nordiche in “folklore” punk. Un’operazione registica portata avanti nel perfetto bilanciamento tra poesia e gusto ludico.
Elemento focale, collocato al centro delle passerelle sopraelevate che hanno costituito l’unico impianto scenografico (di Angelo Linzalata, come le luci) era LaFil – Filarmonica di Milano. Sul podio è salito Marco Seco, postosi intelligentemente “a servizio” della situazione e che ha letteralmente cucito addosso a questa specifica drammaturgia il tessuto musicale, ricollocandolo alla sua funzione originaria. Infatti la musica composta da Edvard Grieg, per la sua bellezza, nel corso degli anni ha imboccato una strada autonoma perdendo la sua originaria natura di poema sinfonico, di complemento alla scena, cui ora si è restituita la giusta dignità. La musica riveste un ruolo descrittivo sostanziale al punto da costituire essa stessa elemento scenografico, e non solo. Oltre a far efficacemente vagheggiare luoghi naturali e atmosfere immaginarie, il capolavoro di Grieg – e il direttore Seco ha fatto suo questo concetto – disvela i caratteri umani: passa da momenti di danza ad accordi rarefatti, da pagine cantabili (peccato l’assenza del Coro) a parentesi trasognate, formando un mosaico musicale fatto di tessere, tante quanti sono i molti personaggi e paesaggi ibseniani. Consapevole di ciò, la bacchetta di Seco ha denotato grande attenzione a bilanciare le dinamiche non solo tra le sezioni orchestrali, ma amalgamando i volumi sonori di orchestra e attori, senza distinzione tra voci degli strumenti ed eloquio umano, con esiti fortemente evocativi.
Seco e Abbado si sono mossi in quella sinergia che è indispensabile a far funzionare uno spettacolo, aprendo squarci su mondi che non sono poi così distanti dai nostri. Nel percorso registico, sono risultati fondamentali i costumi estrosi, ipercolorati, spiritosi di Giada Masi, che hanno aiutato il pubblico a districarsi tra le creature ibseniane (pregio che oggigiorno va purtroppo perdendosi, sopraffatto dalla dilagante uniformità d’abito, che tutto confonde) così come i briosi movimenti scenici di Riccardo Micheletti. Con il loro supporto, il regista Abbado ha racchiuso le figure in gruppi sociali, curando la caratterizzazione di ogni singolo personaggio, alcuni teneri e spontanei, taluni ricercatamente eccessivi, altri grotteschi, sempre con ludica eleganza. Personaggi spesso non univoci, presentanti personalità poliedriche che sono risultate uno dei punti di forza di questo allestimento, assieme agli elementi simbolici: solo per fare due esempi, la cascata di cipolle poi sbucciate a far intendere la stratificazione dell’individuo, oppure l’aggeggio meccanico al quale Peer è stato appeso a testa in giù, per aver osato ribellarsi all’ordine precostituito.
Episodio, quest’ultimo, vissuto da Peer con naturalezza, come una tappa del suo percorso di spoliazione dall’onnipresente senso di inadeguatezza, una fase nel processo di affrancazione da qualsivoglia vincolo, una pennellata in più nella tavolozza della sua immaginazione. La personalità meravigliosamente cangiante del protagonista è apparsa lampante dell’interpretazione dello straordinario Pavel Zelinskiy, che ha dotato Peer Gynt di sfaccettature caleidoscopiche. L’indole stupendamente libera e sognatrice, sganciata da ogni convenzione imposta dal consorzio umano, ha guidato lo scorrere della sua esistenza votata a inseguire chimere, che l’attore ha delineato come proiezioni della mente concrete e reali. Insofferente alle retoriche della collettività che gli guizza attorno, proteso, ma anche sospinto, verso un destino tutto suo, Peer, pur privo di veri ideali, è diventato una sorta di profeta, ossia un individuo capace di vedere oltre e di vivere di conseguenza; una persona che oggi è tale, mentre domani è una persona diversa.
Come dicevamo, tutti i personaggi sono stati attentamente scansionati. Aase, cui ha dato vita Valentina Banci, era una mamma tout court artefice della costruzione fisica del figlio, compresa la sua fervida immaginazione. Il Narratore, invenzione registica con funzioni didascaliche che Massimiliano Sbarsi ha appropriatamente mantenuto distaccato dal contesto per poi rivelarne la natura cardine, con il cambio di ruolo che lo ha visto trasformarsi nel Fonditore di bottoni. E ancora Solveig, Elisabetta Mazzullo, che con spontaneità ha incarnato la purezza e la possibilità di riscatto offerta a Peer e che, a un certo punto, ha anche sfoderato una voce aggraziata e intonata.
Non di minor valore il resto della compagnia formata da Roberto Abbati, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Michele Lisi, Carlotta Mangione, Andrea Mattei, Ilaria Mustardino, Luca Nucera, Chiara Sarcona, Francesca Tripaldi, attori e attrici impegnati in più ruoli, chiassosi, divertenti, sopra le righe ma sempre entro i confini del buon gusto. Un cast che, sotto la guida registica, ha saputo incarnare lo spirito circense inteso nel senso più alto e nobile del termine, traducendo così il contesto epico e favolistico inteso dall’autore. La colorata compagine umana, piena di atteggiamenti stereotipati, ha benevolmente deriso la standardizzazione dei miti antichi così come di quelli moderni. Tra loro, Peer Gynt si è inserito per destabilizzare la massificazione, minare l’omologazione, restando magnificamente intrappolato nel bilico tra dannazione e purificazione. E per dirci che le contraddizioni, financo i tradimenti, possono essere un punto di forza e che, volendo, si può vivere restando fedeli soltanto a se stessi. Vivere, e non morire.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Due di Parma – Arena Shakespeare, il 20 giugno 2023
Immagini: ph Marco Caselli Nirmal