Due cast: Ludovic Tézier, Yusif Eyvazov, Giulia Mazzola. E poi Luca Salsi, Juan Diego Flórez, Giulia Mazzola.

Una regia oltremodo tradizionale, di Antonio Albanese, e la direzione elegante di Marco Armiliato. Ha costituito la seconda nuova produzione di Fondazione Arena di Verona in occasione del festival numero cento quello che è stato fin da subito ribattezzato, con benevola concretezza descrittiva, Rigoletto “in trattoria”.     

Tanto ha guardato al futuro l’altra nuova produzione 2023, Aida immaginata da Stefano Poda (vedi recensione DeArtes della serata inaugurale qui), quanto questo Rigoletto ha ripercorso le orme del passato e della tradizione, a dimostrazione che il teatro vive e si alimenta di linguaggi espressivi differenti e conviventi, e che il pubblico ama la varietà dell’offerta. Antonio Albanese, artista poliedrico, attore e scrittore che sta inanellando un significativo curriculum anche come regista lirico, per la prima volta ha affrontato il palcoscenico dell’Arena, dopo aver curato, sempre a Verona ma nella stagione invernale al Filarmonico, un fortunato Don Pasquale (vedi recensione DeArtes qui) aggraziato brioso e colorato. 

A dominare in Rigoletto, invece, è stato il grigio, voluto e perseguito come mezzo espressivo: un grigiore sinonimo di povertà, di difficili condizioni di vita. Albanese infatti ha trasposto la vicenda (che Verdi dopo la censura aveva ricollocato alla corte rinascimentale del Duca di Mantova) negli anni ‘50, ossia nell’immediato dopoguerra. Un periodo di transizione, venuto dopo l’ultimo conflitto mondiale ma non ancora sfociato nel boom economico, quando buona parte d’Italia moriva di fame e di malattie. Degli anni ‘50 vi era traccia visiva nello schermo collocato in un angolo del palcoscenico e che, ricreando un cinemino all’aperto, ha trasmesso un lacerto omaggiante il neorealismo, purtroppo scarsamente apprezzabile in quanto, durante il preludio, nell’anfiteatro ancora non si era spenta la luce naturale del sole, conflittuale con la proiezione.

Che ci si trovasse nei campi del Polesine si è capito solo leggendo le note di regia ma poco importava lo specifico geografico. Ciò che ha contato è stata l’atmosfera scaturita dal contesto di povertà, attestata anche dai costumi (Valeria Donata Bettella). Accanto a uno stagno malarico con ciuffi di canne palustri (e di non autoctona “erba della Pampas”) sorgeva un edificio, grigio, che la scritta sulla facciata ci diceva essere una ex dogana trasformata in trattoria, frequentata da giovani e da ragazze pronte ad attorniare il Duca seduttore. La piccola costruzione (scenografia di Juan Guillermo Nova, luci Paolo Mazzon) ha poi ruotato svelando dapprima la dimora di Gilda e infine la ceduto il posto alla houseboat in lamiera di Sparafucile. Albanese infatti, con bella intuizione, non ha mai mostrato il palazzo del potere dimora del Duca/signorotto locale, ma ci ha fatto vedere quest’ultimo intento alle attività quotidiane, ossia mangiare bere e divertirsi. Egli si è anche unito alla festicciola paesana coronata da danze campestri (coreografie di Luc Bouy, Ballo coordinato da Gaetano Petrosino) accennate sulle note del celebre “perigordino” musicato da Verdi. Dimostrazione che il grigiore non fosse solo connotazione ambientale e temporale ma che avesse invaso gli animi. Purtroppo estendendosi anche alla percezione che dell’allestimento abbiamo avuto tra il pubblico.  

Il regista ha focalizzato il suo operato principalmente sulla componente scenografica, intervenendo poco incisivamente nella parte attoriale e nella scansione psicologica dei personaggi, circa i quali molto è venuto dai singoli interpreti. In tal senso, cospicuo è stato il merito del protagonista.

Chi scrive ha scelto la data che si preannunciava contraddistinta dalla raffinatezza stilistica di Ludovic Tézier. Il baritono francese ha delineato la figura di Rigoletto ponendosi agli antipodi, anzi lontano anni luce, dal mitico esempio dell’immenso Leo Nucci: una interpretazione nuova ed egualmente superlativa, che riteniamo possa d’ora in avanti essere il nuovo metro di paragone per questo ruolo, almeno in Arena. Tézier ha fatto di Rigoletto (che, con intelligente scelta di regista e costumista, indossava una nera divisa circense non da clown bensì da domatore di leoni), non solo un buffone triste e vilipeso, non solo un padre protettivo nei confronti della figlia Gilda, non solo un uomo in cerca di vendetta, ma una figura drammatica tout court. Un’anima profondamente sofferente, capace di slanci d’amore incondizionato per la figlia ma che al contempo provava un risentimento autentico e dai risvolti oscuri. E che, soprattutto, di ciò aveva acquisito consapevolezza. Dal punto di vista strettamente canoro, Tézier ha confermato classe ed eleganza, declinate nell’ambito di una tensione drammatica e una dimensione tragica mai venute meno, portando sulle spalle deformi il fardello della “maledizione” sotto forma di gibbosità. La voce era aristocratica, la pronuncia ineccepibile, il fraseggio finalizzato alla costruzione del contesto interpretativo, i legati morbidi e dalle arcate ampie, il timbro levigato fattosi studiatamente e stupendamente tagliente, mentre il controllo dei volumi e dell’emissione ha amplificato la dimensione interiore del personaggio.    

È tornato in Arena dove ormai è un habitué, in una serata particolarmente positiva, Yusif Eyvazov, cui gli abiti del rubacuori, spavaldo e abituato a prendere ciò che vuole, sono calzati a pennello. In questa occasione il suo timbro spesso discusso è suonato particolarmente accattivante. Il tenore azero ha compiuto un percepibile lavoro d’approfondimento sulla verdianità della figura del Duca e si è apprezzata la vasta gamma di accenti e chiaroscuri che gli è valsa applausi generosi. Dal canto suo, la giovane Giulia Mazzola ha delineato una Gilda (inspiegabilmente azzimata di parrucchiere dopo la violenza subita) matura e consapevole con voce fresca, agile nei trilli (perdonabilissima una minuscola scivolata) e ben tornita, morbida e aggraziata.

Superlativo Sparafucile di Gianluca Buratto che oltre a rotondità e levigatezza di suono ha curato gli accenti e la proiezione; affascinante e musicale la sua tenuta del celebre Fa basso. Inossidabile Gianfranco Montresor, incisivo Monterone. Hanno degnamente completato il cast Valeria Girardello, dalla voce non potentissima tuttavia ben impostata e sorretta dal physique du rôle indispensabile a Maddalena; mentre Giovanna era Agostina Smimmero dal caratteristico timbro assai scuro. Ancora, Nicolò Ceriani MarulloRiccardo Rados Matteo BorsaRoberto Accurso e Francesca  Maionchi il Conte e la Contessa di CepranoGiorgi Manoshvili Usciere; Elisabetta Zizzo Paggio

Sul podio dell’Orchestra della Fondazione Arena di Verona e del Coro ottimamente preparato da Roberto Gabbiani è salito Marco Armiliato, che ha confermato la sua cifra direttoriale improntata alla misura e alla cura per le voci. Tra sfoggi coloristici e attenzione per i dettagli verdiani, tra tensioni drammatiche e aperture al lirismo, tra tempi larghi e pagine più stringate, Armiliato ha bilanciato il tutto con la consueta eleganza stilistica.

Solo altre due, le repliche di questo titolo previste nel cartellone 2023, con cast differenti e tutti di notevole valore: meglio affrettarsi!

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 7 luglio 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona

CAST ALTERNATIVO

Come è consuetudine in Arena, ogni recita vede l’alternarsi di vari cast. Assistendo a recite diverse si ha non solo la possibilità di godere di una parata di autentiche stelle dell’universo operistico, ma altresì di poter apprezzare le diversità di interpretazione e le caratteristiche vocali dei singoli artisti. Anche nella sera del 20 luglio si sono ascoltate voci al top del panorama internazionale.

Luca Salsi costituisce una certezza sia dal punto di vista vocale che interpretativo. Infatti il baritono non “sbaglia un colpo” nel sostenere i tanti ruoli che formano il suo vasto repertorio. Ha impersonato Rigoletto con la ben nota solidità, sia nella costruzione del personaggio (che, come sopra detto, la regia ha molto demandato ai singoli interpreti) sia nella linea stilistica del canto. Rigoletto è nato con deformità fisiche ed è stipendiato dal Duca per deridere e farsi deridere, e ha trovato consolazione dalla sua triste situazione concedendosi qualche bevuta (del resto, lo ricordiamo, la regia ha ambientato il prim’atto dinanzi a una trattoria). Ma è anche un genitore ultra-protettivo nei confronti della figlia. Quando questa viene rapita e violata, in lui emergono la disperazione e la rabbia di un uomo che si ritrova a dover fare i conti con la maledizione scagliatagli contro. Luca Salsi vanta una voce verdiana, potente e ben calibrata nelle dinamiche e che ha padroneggiato con omogeneità in tutti i registri, supportandola con un fraseggio particolarmente incisivo. Il baritono non ha concesso il bis di “Cortigiani, vil razza dannata” ma ha invece eseguito, assieme al soprano, quello del “Sì vendetta, tremenda vendetta”, grandemente acclamato dal pubblico.  

Il Duca di Mantova (in questa regia Duca del Polesine) era uno dei tenori più stimati al mondo, al suo debutto all’Arena di Verona: Juan Diego Flórez. Celeberrimo come voce belcantista rossiniana doc ma non solo, il tenore peruviano ha primeggiato in tecnica, eccelsa, e in fraseggio, nel quale ha raggiunto vette stilistiche sopraffine. Se il primo atto è servito a “prendere le misure” con l’immensità areniana, Flórez ha presto saputo proiettare al meglio la voce, ottimamente poggiata, aggraziata e dai colori ammalianti. Possiede un timbro naturalmente splendido e la sua innata eleganza non è risultata stonata per il Duca: nel suo caso, il personaggio ha assunto fascino dall’interprete. Assai lontano da certe letture nelle quali si pone in risalto la natura di grezzo amante, il suo Duca ha mantenuto il nobile lignaggio (nonostante l’abbigliamento campestre previsto in questo allestimento). Alla costante ricerca della compagnia femminile è stato al contempo bramato dalle donne, sulle quali ha esercitato un’attrattiva magnetica. Una sola piccola delusione ha riguardato il bis richiesto a gran voce de “La donna è mobile” e non concesso forse per la necessità di procedere con l’opera, visto l’addensarsi di nuvoloni neri, come vedremo in seguito.

Nei panni di Gilda abbiamo nuovamente trovato Giulia Mazzola, della quale confermiamo quanto sopra espresso: una figura che con consapevolezza è andata incontro al suo destino, dalla voce fresca e ben tornita, morbida e aggraziata. In questa nuova occasione il giovane soprano ha mostrato ancora maggiore dimestichezza con il ruolo, e nella voce una ulteriore acquisizione di sicurezza.

Confermiamo anche l’aggettivo “superlativo” già attribuito a Gianluca Buratto, Sparafucile, dalla voce rotonda, levigata e ben proiettata, oltre che curato negli accenti e nella proiezione. E poi l’inossidabile Gianfranco Montresor come MonteroneValeria Girardello, vocalmente adeguata e dal physique du rôle perfetto per Maddalena; mentreGiovanna era Agostina Smimmero dal timbro assai scuro. Sempre puntuali Nicolò Ceriani MarulloRiccardo Rados Matteo BorsaRoberto Accurso e Francesca Maionchi il Conte e la Contessa di CepranoGiorgi Manoshvili Usciere; Elisabetta Zizzo Paggio

Sul podio è nuovamente salito Marco Armiliato, anche in questo caso attento a misurare con eleganza le dinamiche, a esaltare i dettagli e i colori verdiani, e soprattutto a sorreggere al meglio le voci sul palco. Ottimamente seguito, nei suoi dettami, dall’Orchestra e dal coro areniano, quest’ultimo portato a un notevole grado di preparazione da Roberto Gabbiani.

La recita del 20 luglio è stata interrotta a causa di qualche goccia di pioggia. Una pausa di pochissimi minuti sul finale dell’opera, che ha comportato un disagio minimo e il ripetersi della consueta magia areniana: le gocce sono cadute proprio quando sul palcoscenico imperversava la tempesta musicata da Verdi.

L’ultima recita di Rigoletto, con ancora nuovi protagonisti, è in cartellone il 4 agosto.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 20 luglio 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona