Una produzione ben riuscita, che ha saputo dimostrare fedeltà all’originale di Shakespeare pur rinnovandolo e snellendolo. E dove sullo spirito ironico del Bardo si è innestata la vena divertente e leggera del regista Andrea Chiodi, il cui sguardo è stato attento a bilanciare i vari elementi, di testo e di allestimento.
È entrata nel vivo l’Estate Teatrale Veronese, con il suo fiore all’occhiello del Festival Shakespeariano che, in un cartellone volto principalmente a testi stralciati, perifrasi e parafrasi (qualitativamente ottimi) dello scrittore di Stratford-on-Avon, ha presentato come unico titolo completo (ma giunge in soccorso la sezione Fringe) Le allegre comari di Windsor. Lo spettacolo ha debuttato al Teatro Romano di Verona in prima nazionale, nella produzione targata TSV Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale.
Si diceva della fusione tra elementi shakespeariani, come il linguaggio rimasto scorrevole e ricco di ritmo nel condensato che ne ha fatto Angela Demattè nell’adattamento drammaturgico, e una decisa spinta innovativa, esplicitata ad esempio nel ringiovanimento dei personaggi, in primis Falstaff, dal corpo sì abbondante come vuole la tradizione, ma d’inedita età junior.
Memore della predilezione provata da Shakespeare per i mondi fatati e onirici, il regista Andrea Chiodi ha inscenato il proprio concetto di sogno e ha collocato i personaggi in una astrazione della mente, precisamente in un immaginario country club. Il che significa, generalmente come anche in questo caso, una scenografia spoglia che ha lasciato supporre anziché mostrare. Tartan tartan e ancora tartan, prometteva nelle sue note lo scenografo Guido Buganza. Così è stato, gradevolmente. Il pavimento e una parete sbilenca che celava una serie di porte, erano tappezzati da stoffa scozzese d’un elegante verde. Proprio sulla traccia geometrica di trama e ordito il regista ha costruito uno degli elementi caratterizzanti la sua messa in scena, dove le situazioni scoppiettanti hanno principiato con camminate dei personaggi intenti a seguire il disegno geometrico del tessuto (“cura dei movimenti” Marta Ciappina), come in una scacchiera dove si pongono in fila tutti i pezzi prima di muoverli. Il tartan ricorreva anche nei costumi che Ilaria Ariemme ha declinato in varie fogge oltre che nei classici kilt (sarebbe stato opportuno insegnare ai maschietti a sedersi a terra compostamente e di tre quarti).
Un altro elemento sul quale insistevano le molteplici note stampate nel programma di sala è la credenza secondo la quale questo titolo potrebbe essere stato commissionato a Shakespeare dalla Regina Elisabetta I Tudor. Particolare declinato spiritosamente nella canottiera indossata da Falstaff sopra il kilt, con stampata la Regina Elisabetta della nostra epoca, in versione pop ispirata alle opere di artisti moderni e contemporanei che l’hanno resa un’icona.
Per il regista, come si diceva, il luogo della mente era un immaginario country club. La vita nel ristretto circolo snob è ruotata attorno a Madame Quickly, presenza diventata, in questa versione, centrale e perenne sul palcoscenico. Una governante che ha tirato i fili dell’intricata situazione; una sorta di maître de ballet con le fattezze di Eva Robin’s, grazie alla quale si è giocato anche sul concetto emancipato di gender già vivo in Shakespeare. Invece, di più difficile comprensione sono state le frasi, solo alcune, in dialetto bolognese. Nome di richiamo sul grande pubblico, Eva Robin’s ha sostenuto la parte, che la vedeva per lo più in pose statuarie oppure adagiata su una poltrona, con padronanza scenica e aplomb British.
Altro fulcro catalizzatore accanto a Madame Quickly, con la quale ha instaurato un insolito feeling, era Sir John Falstaff, la cui giovane e soda pinguedine è stata messa in bella mostra da Davide Falbo, attore tanto spiritoso e autoironico quanto bravo nel fare suo, di molto personalizzandolo, un ruolo così impegnativo. Un mascalzone in cerca di soldi e di donne da sedurre, un rubacuori illuso e pasticcione, come si diceva abbigliato in maglietta, kilt e scarponi, che nell’interpretazione fattane da Falbo è parso aver strizzato l’occhio al protagonista di The school of rock, film del 2003 diretto da Richard Linklater e sceneggiato da Mike White appositamente per l’attore Jack Black. Anche in questo caso, la figura di Falstaff è parsa essere stata confezionata ad hoc sulla fisicità ma anche sulle doti espressive rockeggianti di Falbo, che ha facilmente conquistato la simpatia del pubblico.
Il termine “comare” nella lingua italiana assume un significato negativo di donna superficialmente pettegola, mentre il titolo originale della commedia è The merry wives of Windsor, ossia mogli. Due donne fedeli e oneste, decise e libere nelle azioni, diventate “allegre” nell’ideare una burla per castigare Falstaff che aveva maldestramente cercato di insidiare le loro virtù. A vestire questi panni, le spumeggianti Francesca Porrini e Sofia Pauly, rispettivamente Alice Ford e Margaret Page, verace l’una e con la puzza al naso l’altra. Il talentuoso Angelo di Genio è stato un Ford pienamente convincente e prodigo di sfumature nella recitazione. Il cast si è completato con Riccardo Gamba come Page; Ottavia Sanfilippo Anna Page, Robin; Nicola Ciaffoni Robert Shallow, Fenton; Pierdomenico Simone nei panni di Abramo Slender, Pistol, Dottor Caius.
Un altro elemento si è rivelato sostanziale per la buona riuscita dell’allestimento: il travolgente tappeto sonoro composto da Daniele D’Angelo, incalzante, che avremmo voluto sentire più spesso nel corso dello spettacolo, una lunga galoppata senza intervallo che la musica avrebbe potuto ulteriormente vivacizzare nella parte centrale. La commedia, come da copione, è stata ricondotta nel finale a un clima farsesco, dove finte fate e folletti, pronti a giudicare Falstaff, gli hanno dato una lezione vestendolo da animale con le corna e deridendolo. Facendone così il capro espiatorio di una società che desidererebbe sovvertire le proprie regole, ma castiga chi lo fa. Le maldicenze sono ammesse però le malefatte vengono punite.
Impunito invece è stato il comportamento disdicevole degli spettatori all’uscita, che hanno arraffato come souvenir le piccole sfere luminose che erano state gettate sul palco quali elementi scenici. Ai giorni nostri, quando si stanno inasprendo le sanzioni verso coloro che deturpano il Colosseo e gli altri monumenti lasciando ignorante segno del proprio passaggio, ci si aspetterebbe una maggiore civiltà di comportamento nei confronti dei beni artistici, quali essi siano, teatro compreso. Come ci racconta anche Puccini nel suo “Gianni Schicchi”, ai tempi di Dante i ladri venivano puniti con il taglio della mano. Meditate, gente, meditate.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona – Festival Shakespeariano, il 13 luglio 2023