Un timbro naturalmente bellissimo, nella voce di agilità e coloratura. E poi tecnica, tecnica e ancora tecnica. Fraseggio, fraseggio e ancora fraseggio. Juan Diego Flórez, una delle stelle più brillanti nel firmamento operistico, era forse il solo tra i numeri uno mondiali a non aver ancora calcato il palco dell’Arena di Verona. È giunto in questa estate in cui si celebra il Festival numero 100 e la cui programmazione, da giugno a settembre, risulta più unica che rara per il numero altissimo di nomi che formano la crème de la crème internazionale. Flórez ha debuttato nell’anfiteatro vestendo i panni del Duca in Rigoletto (vedi recensione qui) e ha fatto ritorno tra gli storici gradoni due sere dopo, per un Gala da annoverare tra i più bei ricordi di chi vi ha assistito.
Juan Diego Flórez è un “tenore di grazia” ma la sua voce si è rivelata ottimale anche nella vastità di questi spazi, avendo confermato, one more time, che ciò che qui conta non è la forza bruta del fiato bensì la capacità di proiezione, nel suo caso sommata a un invidiabile bagaglio di armonici. Così gli acuti, spigliati e naturali, si sono tradotti in uno sfoggio di lucentezza e purezza, mentre le mezze voci hanno raggiunto vertici di morbidezza e dolcezza, in una linea di canto prodiga di ceselli, di virtuosismi e fioriture. Aggiungiamo l’innata eleganza della persona, estesa al canto, e il quadro è completo.
Il tenore eccelle nel repertorio belcantista e tra i suoi cavalli di battaglia figura Rossini, con cui ha aperto la serata. Assieme al mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya, voce di classe protesa a piano e pianissimi, ha intonato tre stralci da La Cenerentola. Da Don Ramiro, Flórez è poi passato a Tonio ne La Fille du régiment di Donizetti, con i famosi nove do di petto inanellati senza sforzo alcuno e con squisita raffinatezza stilistica. Una grande scena che è stata eseguita (e non è stata la sola) nella sua integrità, ossia con l’intervento del Coro areniano diretto da Roberto Gabbiani: cosa non comune in un recital. Il balzo nel repertorio francese è proseguito nella seconda parte, apertasi con Gounod e quattro momenti tratti da Roméo et Jiuliette, assieme al soprano spagnolo Marina Monzò, dal timbro leggiadro e padrona della tecnica: un omaggio all’amore e alla città di Verona.
Il programma è pertanto iniziato con un repertorio per intenditori, riservato al belcanto, ed è proseguito con proposte risultate accattivanti anche per un pubblico meno esperto, incentrate sul genere romantico. Ecco quindi che la serata si è popolata di altre figure, il Rodolfo verdiano di Luisa Miller e il Rodolfo pucciniano de La bohème. Come aveva preannunciato in conferenza stampa, Flórez ha «cantato un po’ di tutto» dimostrando l’estrema facilità, che solo i grandissimi possiedono, di tratteggiare efficacemente un personaggio fin dalle prime battute, e ha permesso di apprezzare la sua predilezione per la spontaneità, il suo amare relazionarsi col pubblico abbandonandosi alla sensibilità dell’attimo. «L’emozione di creare sul momento è bellissima» aveva detto il tenore sempre in conferenza stampa.
In ruoli di contorno abbiamo trovato dei fuoriclasse, impiegati in parti petit tuttavia sostanziali per mantenere l’asticella qualitativa alla medesima altezza imposta da Flórez: i due bassi Michele Pertusi e Gabriele Sagona. Mentre, nel comparto femminile, si sono rivelate adeguate alla serata Sofia Koberidze e Marianna Mappa.
La sinfonia da La Cenerentola e quella dal Don Pasquale, il preludio da La traviata e l’intermezzo da Manon Lescaut: numerosi sono stati gli interventi sinfonici che hanno messo in luce la duttilità dell’Orchestra della Fondazione Arena di Verona nel seguire i dettami di chi, di volta in volta e in rapida successione, sale sul podio. In questo caso Christopher Franklin, che vanta un’intesa di lunga data con Flórez, oltre che una buona dose di simpatia.
Infatti, dopo poche note dall’inizio del concerto, il direttore statunitense ha interrotto l’esecuzione perché dalla profondità degli arcovoli areniani provenivano nitidi i gorgheggi del tenore impegnato a scaldarsi la voce (palesemente anche potente). Tutto si è risolto in una risata benevolmente divertita del pubblico sfociata nel primo dei tanti applausi.
La ciliegina sulla torta è venuta, a sorpresa, dai lunghi bis generosamente concessi, in un crescendo di adrenalina ma anche di emozione. Il brusio interrogativo corso in platea quando è stata portata sul palco una seggiola, ha trovato risposta al nuovo ingresso del tenore, che ricordiamo essere figlio di un chitarrista, presentatosi munito di questo strumento, con il quale si è accompagnato.
Difficile, per chi scrive, riuscire a tradurre in parole la carica emotiva, il brivido corso lungo la spina dorsale che la voce di Flórez, “denudata” dell’orchestra, ha inaspettatamente trasmesso anche affrontando un repertorio leggero, del quale eravamo personalmente più che diffidenti e del quale invece lo ringraziamo dal profondo del cuore.
Difficile tradurre per iscritto la finezza e la classe con cui ha intonato dapprima l’omaggio a Napoli e all’Italia di “Tu ca nun chiagne”, poi il classico della canzone spagnola “Bésame mucho”, seguito da un valzer composto da un cantautore peruviano che ha letteralmente mandato in visibilio la fetta campanilistica del pubblico. Poi, la canzone messicana “Cuccurucucù Paloma”, la cui ultima nota è stata mantenuta per un tempo strabiliantemente lungo, in un pianissimo impalpabile, nell’anfiteatro piombato nel più totale silenzio. La voce di Flórez è emersa in tutta la sua grazia e, con sensibilità interpretativa, ha trasformato questi brani nazional-popolari in gioiellini di fattura squisita. E ancora non era finita, perché prima di congedarsi Flórez ha regalato uno dei suoi must, “Una furtiva lagrima” da L’elisir d’amore, infine “Nessun dorma” da Turandot, quest’ultimo eseguito superando la difficoltà dinamica e volumetrica di avere l’orchestra alle spalle e non in buca.
Il pubblico era inspiegabilmente scarso, tanto che la parte superiore delle gradinate era stata chiusa. Non risulta adeguato il solito “peccato per chi non c’era” ma risulta appropriato esclamare “fesso chi non c’era”, perché la memoria di questo recital resterà tra le più belle delle magiche notti areniane. Per certo abbondavano i compatrioti del tenore naturalizzato italiano ma nato a Lima, i quali nel corso del Gala hanno più volte gridato apprezzamenti in madre lingua tra lo sventolio di bandiere del Perù (di dimensioni calcistiche) illuminate con le torce dei telefonini. Tutto è parte dello spettacolo: in Arena anche il pubblico è protagonista.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 23 luglio 2023
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona