Non leggete queste righe se avete intenzione di assistere a una futura data della tournée. Non cercate commenti e recensioni, non consultate le note di sala, non ascoltate le interviste. Andate a teatro e vivete lo spettacolo. Lasciate che la sua carica emozionale si impadronisca di voi e vi colpisca sull’attimo, inaspettatamente, lasciandovi scossi e un po’ più ricchi interiormente.

Siamo a Parigi. La giornata è freddissima. Solo oggi, 15 dicembre 1840, dopo vent’anni dalla morte, le spoglie di Napoleone tornano dall’isola di Sant’Elena in Francia per riposare nella chiesa de Les Invalides. L’intervallo temporale tra la dipartita e la tumulazione costringe a fare i conti con il passato. Napoleone è un mito, è un padre per l’umanità della quale ha contribuito a scrivere la Storia. È il padre che tutti abbiamo e che molti, tra gli spettatori, hanno dovuto salutare per sempre.

Ci sono i «padri biologici ma anche i padri morali, i padri del destino, i padri della civiltà, i padri dei sogni» spiega l’autore in un’intervista, non necessaria perché il messaggio arriva forte e chiaro dal palcoscenico. Davide Sacco è un abile regista e un ancor più abile drammaturgo, capace di rendere viva e vitale la sua parola scritta, di darle corpo e anima prima ancora che essa assuma le fattezze dell’interprete. Una parola lucida e incisiva, scorrevole, che non subisce alcun cedimento nel ritmo, nessun calo nella tensione emotiva, grazie anche alla durata dello spettacolo condensata in circa un’ora, di tale intensità da valerne due.  

Produzione LVF Teatro Manini di Narni, andato in scena al Teatro Romano di Verona nel corso dell’Estate Teatrale Veronese nella sezione Celebrating 75th del Festival Shakespeariano, “Napoleone. La morte di Dio” prende spunto dal taccuino che Victor Hugo riempì di appunti quando fu incaricato di redigere la cronaca del funerale di Bonaparte. Un punto di partenza sviluppato in narrazione parallela nel testo di Sacco, che intreccia indissolubilmente memoria storica e attuale; dove gli elementi documentati e le riflessioni personali si fondono, si integrano, si esplicitano l’un l’altro, risultano magnificamente indistinguibili. E dove il passato e il presente sono una cosa sola.

Addentrandoci in un primo livello narrativo, si tratta di una riflessione sulla morte che ci trova inermi, sul senso della perdita, sulla costruzione del dolore come atto di consapevolezza. Scopriamo che forse qualcuno è stato Napoleone ma nessuno lo è più. “Ei fu”, non “è”. Dell’eroe omaggiato da Manzoni resta solo un padre. E un figlio orfano.

Scavando più in profondità, emerge una disamina sul tempo. Ieri è oggi, e il tempo nel suo scorrere è immutabile. Riflettendo sulla Storia di tutti e sul vissuto di ciascuno, soffermandosi sul tempo inteso come identità, si è spinti a rimodulare il concetto di eroe, a chiedersi se l’eroe davvero esista o se esista solo l’uomo. Se esista solo il padre da piangere alla sua morte o, prima, da commiserare quando le sue membra cedono alla vecchiaia, quando ormai è troppo tardi per dirgli quello che non gli abbiamo mai detto. Non sappiamo se l’autore abbia messo in questo lavoro esperienze autobiografiche, ma la profondità priva di retorica e densa di umanità di certe considerazioni fa presumere di sì. Quello che è certo, è che ogni singolo spettatore si può identificare nelle parole di Sacco, nel suo pensiero quasi filosofico, illuminante nel palcoscenico avvolto dalla penombra.

Immersi in un contesto evocativo e simbolico eppure più nitido di quanto una scenografia realistica potrebbe fare, due interlocutori affiancano il figlio nel suo viaggio interiore: il becchino Amedeo Carlo Capitanelli intento a spalare terra nell’immaginario cimitero, e una musa, Simona Boo, cui è affidato il compito d’omerica memoria di cantare l’eroe attraverso un pastiche musicale anch’esso evocativo, da Lascia ch’io pianga mia cruda sorte da Rinaldo di Händel, fino a Battiato, condividendo con il protagonista Cosa sono le nuvole di Modugno e Pasolini. Adagiando il tappeto sonoro sopra la terra, anch’essa di manzoniana reminiscenza, la cantante/musa dialoga attraverso melodie e virtuosismi scat con il figlio, lo ascolta e lo consola, interagisce con il suo animo tormentato, lo accompagna nel dolore del distacco che coincide con la caduta delle certezze, condivide con lui la solitudine. Quando si perde un padre, infatti, ci si ritrova improvvisamente soli ad affrontare la vita. Si è pronti a essere figli, non lo si è mai per essere orfani.

La morte del padre è ciò che tutti i figli temono e l’umanità è orfana dopo la morte di Napoleone, un «padre della nostra modernità» ha detto Guanciale nell’intervista rilasciata all’Estate Teatrale Veronese: egli ha avuto una visione lungimirante dell’Europa e lascia tutt’oggi «dei segni che ci portiamo addosso, come ci portiamo addosso le nostre cicatrici personali». Lo spettacolo, come si diceva, riconduce la Storia della collettività alla storia del singolo facendole coincidere, creando assonanze e riverberi.

Lino Guanciale cita il Nerone di Petrolini, interiorizza ed esteriorizza, soffre in prima persona quelle parole cui dà il suo respiro, muta con rapidità ed efficacia sorprendenti gli stati d’animo che gli scuotono il corpo. La sua voce di figlio è combattività e rassegnazione, concitazione e avvilimento, rabbia e dolcezza. Il suo strazio è il nostro strazio. È l’acquisizione del senso della memoria ed è il pianto della perdita. Il suo urlo di dolore si disgrega e si fa polvere nella polvere sparsa dal becchino. Si solleva una nuvola sottile e grigiastra quando ci rendiamo conto che del padre, dell’eroe, resta solo un cappello, un bicorno di feltro nero schiacciato dalla permanenza nell’armadio, da stringere tra le mani per sentire ancora l’odore del genitore.  

“Tu per tuo figlio sei Dio, sei l’imperatore, tu becchino sei re, tu sei Napoleone”. Tutto si risolve, trova fine, nel tonfo sordo della bara che cade rovinosamente al suolo e nelle luci accecanti piazzate negli occhi degli spettatori che segnano l’inizio di un altro viaggio cui noi figli non possiamo partecipare. “Io scrivo l’ultima pagina delle vite delle persone”.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona, Estate Teatrale Veronese, il 29 luglio 2023
Foto © Mattia Bernabei

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