Al Festivaletteratura di Mantova è andato in scena Giovanni Testori, nel reading di Federica Fracassi.
Questo è l’anno del centenario della nascita di Giovanni Testori, e molte sono le iniziative nate per ricordare la figura del grande drammaturgo di Novate Milanese, poeta, scrittore, giornalista, critico d’arte e letterario, curatore di mostre, sceneggiatore, regista teatrale e non ultimo pittore (vedi notizia DeArtes qui).
Testori è celebre per il suo sperimentalismo sul linguaggio. Nella sua poetica egli dà importanza primaria alla parola, che si fa oggetto espressivo, materia. Il suo primo avvicinarsi a Erodiade, con un testo rappresentato nel 1961, era ispirato alla visione pittorica di Caravaggio e dei caravaggeschi. Tornò su questo soggetto altre volte.
Erodiàs risale all’ultimo periodo e fa parte della trilogia dei “lai” (lamenti) pubblicata postuma nel 1994 (Testori era morto l’anno prima): Cleopatràs, Erodiàs, Mater strangosciàs. Si tratta del filone caratterizzato dalla “s”, ha spiegato nelle note introduttive allo spettacolo inscenato a Mantova a Festivaletteratura Giuseppe Frangi, giornalista, critico e presidente della Fondazione Testori da lui fondata nel 1998, nonché attivo collaboratore alla nascita di questa versione teatrale. La trilogia affronta la disperazione di tre donne dinanzi ai corpi morti delle persone amate ma anche, ha continuato Frangi, rappresenta la sintesi di inferno (Cleopatràs), purgatorio (Erodiàs), paradiso (Mater strangosciàs). Qui Testori ha toccato il vertice della sua reinvenzione della lingua. Una idioletta che costituisce un ritorno ancestrale alle sue radici familiari e alla Valassina, e che ibrida il lombardo con latino e latinismi, francese e spagnolo. Una lingua eufonetica sovrabbondante di neologismi e che si rende comprensibile nella sua musicalità, nel suono che assumono i versi.
Erodiade, infatuata di Giovanni Battista e da lui respinta, convinse la figlia Salomè a pretendere in dono la testa del profeta, servita su un vassoio. A portare in scena la principessa ebraica moglie di due Erode imparentati tra loro, è stata Federica Fracassi, che già dal 2016 si rapportò all’universo testoriano leggendo, studiando e smontando pezzo dopo pezzo i lai, ha continuato a spiegare Frangi. Operazione confluita in questa Erodiàs (produzione Teatro i) per la quale l’attrice ha ricevuto, nel 2017, il premio Enriquez ed è risultata finalista del premio Ubu. Lo spettacolo al Teatro Bibiena è stato riproposto in versione reading e asciugato negli elementi scenici, taluni fondamentali come la lastra di plexiglass che originariamente la separava dal pubblico ponendola in una sorta di vetrina. Ma proprio lo spurgo degli oggetti di contorno ha permesso una maggiore focalizzazione sulla parola testoriana, e sul Verbum divino fattosi carne.
Mentre il pubblico affluiva nella sala, sul palco era collocato un manichino in abiti settecenteschi macchiati di sangue: una donna decapitata che reggeva tra le mani una testa mozzata barbuta. “Jokanaan”, il nome ebraico di Giovanni Battista ha squarciato in un grido il silenzio. La testa che pareva di cartapesta si è animata, rivelando l’appartenenza all’attrice che ha presto dismesso l’abito per mostrarsi in una velata nudità, mantenendo barba e tacchi alti.
La barba è uno degli attributi maschili dei quali questa figura ermafrodita si spoglierà, in una sorta di rito pagano che ha portato a identificare la natura di Erodiàs e del Battista come simbiotica, come se il Verbum riconducibile al profeta si fosse incarnato sotto forma di un organismo parassita, però non depauperando l’ospite bensì ibridandone la consistenza. Un innesto del bene sul male. Erodiàs e Giuàn sono un essere solo dalla natura bipolare, confermata dalla voce a tratti sdoppiatasi in echi artificiali. La testa irsuta del profeta trapiantata sul corpo femminile le ha parlato, le ha sottoposto interrogativi provocanti ai quali non era possibile dare risposta se non trasformandosi, se non assumendo fattezze non univoche. Infatti il primo elemento maschile di cui Erodiàs si è privata è stato un fallo di gomma che stringeva fra le cosce, poi collocato in una piccola teca museale a fare da interlocutore, quale blasfema identificazione del Battista.
Federica Fracassi, in una prova attoriale davvero straordinaria e in costante tensione, ha impersonato una figura dagli atteggiamenti ripetitivi maniacali, indemoniati. Viscerale e concentratissima, ha inglobato in sé, fisicamente, le pulsioni contrastanti del testo. Il reading, sotto la direzione registica di Renzo Martinelli, ha rasentato l’osceno senza essere osceno, è stato irriverente, provocatorio, violento. Con inaudita potenza, Federica Fracassi ha spogliato la propria forza espressiva dalle consuetudini teatrali per indirizzarsi, parallelamente a Testori, verso la ricerca di un linguaggio attoriale non convenzionale.
L’ossessività del personaggio si è manifestata attraverso il corpo dell’interprete, che per oltre un’ora si è contorto scosso da fremiti, e la sua carne – quel Verbum fattosi carne – ha vibrato di sfacciata bramosia. L’amore che Erodiàs prova per Giuàn è lussurioso e Fracassi lo ha esplicitato con crudezza, con ostentata immoralità ma anche con ironia. L’Erodiàs di Testori vive in un eterno purgatorio dove non arriva la luce dello spirito. Cristo per lei non giunge, condannandola a essere atea. Di sacro, c’è solo il verbo testoriano.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Festivaletteratura di Mantova l’8 settembre 2023
Foto: MiLùMediA for DeArtes