Incontro Olga Tokarczuk, sicuramente Nobel 2018 per la letteratura, altrettanto sicuramente storica, nonché sicuramente storica ricercatrice di sé, per sé, nel mistico emblematico in sé. Essenzialmente di lei stessa trasmutata è il rintracciare, inseguire, antropomorfizzare ossessivo del forse messia e del suo magico ritorno sembiante homo. Quasi a voler necessariamente colmare una lacuna storica che nulla potrebbe, se non nella sua personale considerazione filmica d’una concezione protocristiana.
Di un incontro da lontano con l’autrice, si disserta, non del suo romanzo maggiore, nonché dell’inquadrato e del proiettato cubitale, nonché del serpeggiare della capacità evocativa che il solo titolo proposto “LA TENEREZZA DELLA NARRAZIONE”, rimanda, ma che, per empatica palpabilità, niente esprime tenerezza. Al contrario, si misurano complesse certezze di dubbio in un’equazione instabile tra vero, ipotetico e ricreato ad hoc, con indici tutelari codificati nell’immaginario collettivo che trasversalizzano loquele, religioni ed eventi topici. Un gran bel quadro espressionista dai gran toni chagalliani nell’indefinizione dei ruoli e delle oggettività del raccontare, istoriato di storicizzazioni e sapienti pennellate in forma di computi alfabetici. Ma di incontro si sottolinea, suggerisce e riflette, con l’ermetismo linguistico del tradotto e le posture ieratiche indotte, quasi ad attendersi una trasfigurazione traslitterata da autore a narratore, da osservatore a saggista. Perché di racconto del racconto raccontato, si compone e consiste l’happening. E a costume di mitra papale e crucifige, si immagina.
Si auspicherebbe una maggior conoscenza dell’autrice e dei dodici anni che ne ha richiesto la stesura, più che dei temi sviscerati in 960 pagine. E in 45 minuti di clack, magari insieme agli alter ego negoziali del tomo che aleggiano bardati da oracoli, più che da impeccabili presentatori.