Laura Marinoni dà voce e volto all’eroina di Euripide, per la regia di Federico Tiezzi, al Teatro Romano di Verona.
La grande attrice e il grande regista hanno riletto il mito tragico di Medea in uno spettacolo che già dal debutto ha registrato numeri record di pubblico. La traduzione di Massimo Fusillo, uno dei più eminenti studiosi della classicità, ha snellito il linguaggio con estremo rispetto verso il testo, affidato a una nutrita Compagnia di attori. Già questo è un pregio dell’allestimento, dato che negli ultimi anni è dilagata l’abitudine di tagliare il numero dei personaggi, per ridurre talune lunghezze-fiume e anche per abbattere i costi, a discapito dei testi. Invece nulla è stato sottratto alla incisività drammatica di Euripide nella produzione di Fondazione INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico, che ha debuttato al Teatro Greco di Siracusa dove ha ricevuto il Premio Stampa Teatro. La tournée è proseguita al Teatro Grande di Pompei, nell’ambito di Pompeii Theatrum Mundi, per poi essere sbarcata a Verona dove ha concluso in grande stile il Settembre classico di ETV – Estate Teatrale Veronese.
Lo spettacolo è stato aperto da un Coro vestito di bianco intento a pronunciare frasi magiche, riferite a riti atavici, attorniando una figura/guida enigmatica che di lì a poco si è scoperto essere Medea. Un prologo musicale ex novo che il regista Federico Tiezzi ha commissionato alla compositrice Silvia Colasanti (eseguito con la collaborazione del Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma, maestra del coro Francesca Della Monica, arrangiatore coro e voci Ernani Maletta, prima coreuta e direttrice del coro e Simonetta Cartia). Un’anteprima voluta da Tiezzi, servita a preannunciare la sua linea registica, dove la musica ha avuto un ruolo fondamentale, comprendendo anche citazioni a compositori classici, soprattutto nel quadro conclusivo.
Il prologo ha collocato la vicenda in un contesto multitemporale. Il canto infatti ha evocato i gesti efferati precedentemente compiuti da Medea e ha preannunciato i futuri, in un rito sciamanico al contempo presagio e profezia. Ma si è rivelato anche mezzo con cui Tiezzi ha fin dall’inizio messo in chiaro che la violenza è insita nell’uomo, che è parte naturale e ancestrale dell’esistenza. In una chiave di lettura più sottile, il Coro d’apertura ha rappresentato una proiezione onirica della mente di Medea, o un déjà vu, un qualcosa di già accaduto che si ripresenta con l’ossessività di un incubo.
La Nutrice, come Medea, era una migrante arrivata a Corinto con una valigia e un marcato accento straniero (Debora Zuin). Un lavoro di scavo sulla parola, nonché sul suono connesso alla parola, che Tiezzi ha svolto su ciascun interprete, ognuno instradato a declamare a suo modo il testo, chi con voce impostata, chi in maniera più naturale, a identificare l’incontro/scontro di mondi e di culture.
Di prioritaria presenza la simbologia animale. I bambini, che giocavano calzando teste di conigli, erano emblema di innocenza e dell’essere indifesi, avendo al loro fianco solo un Pedagogo (Riccardo Livermore). Invece Creonte re di Corinto indossava una giacca da moderno capitano d’industria, teneva davanti al volto una maschera di coccodrillo e si muoveva contorcendosi come un orribile rettile (Roberto Latini). Attorniato da scagnozzi alligatori, era sinonimo di ferocia, di propensione ad azzannare i rivali come uno spietato affarista dell’era post industriale. Il Coro vero e proprio era invece formato da uno stuolo di domestici in divise azzurre, intento a pulire, ascoltare, interloquire.
Nella versione di Siracusa, la simbologia non era limitata al parallelismo tra personaggi e animali ma si estendeva agli elementi scenografici (Marco Rossi) che il più piccolo palcoscenico del Teatro Romano di Verona ha costretto a ridimensionare (come le strutture tubolari che delimitavano stanze senza pareti). Una serie di eleganti colonnine con busti statuari e una moltitudine di sedie hanno identificato il palazzo (il maggior sacrificio scenico ha riguardato la gru, un moderno Carro del Sole che nell’ultimo atto porta verso l’alto Medea. Scena a Verona risolta collocando la protagonista sulla balconata alle spalle della gradinata).
L’elemento simbolico di più forte impatto ha ovviamente riguardato la protagonista. Laura Marinoni Medea è entrata in scena indossando una testa di uccello dal grande becco nero e un abito nero/blu dalla lunga coda piumata (di Giovanna Buzzi, di tale eleganza che avrebbe ben figurato sulle passerelle haute couture), retaggio delle sue radici tribali. La Medea di Tiezzi è un’arpia, mezza donna e mezza uccello. È un corvo dal becco possente adatto a pascersi delle prede, le cui piume di tenebre sono indossate dalla nipote del Sole. Un volatile che, tradizionalmente, simboleggia il passaggio dalla notte al giorno, dal male al bene, di conseguenza il percorso dall’ignoranza alla conoscenza e il viaggio dalla morte alla vita. Il corvo Medea, la barbara venuta dalla Colchide (l’odierna Turchia) alla città greca di Corinto, assassinerà i propri figli come atto ineluttabile, ci ha detto Tiezzi solo facendole indossare quel costume.
Medea uccide i bambini per rivalsa, per «mangiare il cuore al suo sposo» Giasone (Alessandro Averone)che la scaccia preferendole Glauce, la figlia del re Creonte, e per lasciarlo senza una discendenza. «Àrmati di coraggio, cuore mio: quello che devi fare è orribile ma inevitabile». Questa frase ha costituito il culmine di una recitazione di tagliente intensità. Tanto asciutto ed energico nelle intenzioni, quanto incisivo e altamente espressivo nella timbrica, l’eloquio di Laura Marinoni ha alternato impetuosi fiumi verbali attentamente fraseggiati, a parole scalpellate una ad una per amplificarne l’eco drammatica, incarnando alla lettera quella “donna di pietra” descritta da Euripide.
Medea è una sciamana dai poteri magici ma è anche una donna che presenta una complessità di stati d’animo, di modi di essere: nella sublime interpretazione dell’attrice si è mostrata determinata e smarrita, perentoria e supplichevole, arguta e folle, lucida e allucinata. Ha condensato in sé caratteri contraddittori, perché la contraddizione si annida nell’essere umano. Tutti potremmo potenzialmente trasformarci in assassini in determinate circostanze, come quando il dolore diventa insopportabilmente forte. Il fattore scatenante per Medea è la repentinità degli eventi: nel giro di pochi minuti viene scacciata dall’uomo da lei amato e che le preferisce la figlia del re per ragioni politiche ed economiche. Per sposare Giasone, Medea aveva ucciso i suoi famigliari, aveva abbandonato la propria terra, con le sue arti magiche aveva aiutato il marito a conquistare il Vello d’Oro e diventare un eroe. Ora viene da lui allontanata. All’improvviso si trova senza una patria natia né una patria ospitante, né un bene né un oggetto da portare con sé. Non ha denaro per sopravvivere e neanche una meta dove andare, una città dove avere rifugio sicuro. Finché trova accoglienza presso Egeo, re di Atene (Luigi Tabita) vestito di bianco come un dandy inglese, promettendogli prole e arti magiche al suo servizio.
Deve rinunciare anche ai figli, e allora, è il lampo crudele ma abbagliante di un attimo, decide di compiere un atto impossibile da compiere, come se agisse in un’altra dimensione, preda della furia istintiva e dello stordimento. Il suo gesto feroce è il terribile urlo di dolore di una vittima, di una moglie che non è stata ferita tanto dal tradimento della carne quanto da quello dello spirito. Medea è una donna della Colchide preda di sentimenti istintivi che cozzano contro l’ordine del mondo greco, che ruota attorno all’universo maschile. È una principessa ma a Corinto viene considerata, e si sente, una straniera, una barbara dai barbari modi. Una diversa, mai accettata.
Marinoni, con straordinaria abilità, mediante stupende inflessioni della voce, ha instillato il dubbio su chi fosse davvero il barbaro: se il suo popolo d’origine dalle radici ancestrali o quello di Corinto convinto di essere moderno e progredito. Medea è profondamente delusa dalla vita alla reggia, si sente come un uccello, un corvo, in gabbia: «L’uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita» perché «[gli uomini] sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!»
Medea è una figura violenta perché vittima di violenza. Incarna lo scontro fra due culture e fra due diversi tipi di virulenza, la sua e quella del marito. È una eroina di 25 secoli fa (l’opera di Euripide andò in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 431 a.C.) che compie azioni raccapriccianti non troppo dissimili da quelle che costellano le cronache dei giornali odierni. Il regista, quindi, ha allargato l’ottica, spostando il fulcro dal dissidio familiare allo scontro fra una società arcaica e una evoluta, tra disordine e ordine, tra la barbarie e la polis, tra il dionisiaco e l’apollineo. Ha traghettato la solitudine della straniera in una dimensione universale e senza tempo.
La Medea di Tiezzi/Marinoni è una donna forte, capace di una crudeltà contro natura che si rivela sorprendentemente quasi giustificabile. Una barbara preda dell’istinto che è guidata dalla luce interiore dell’intelligenza; una sciamana dal magico potere di trovare la porta d’accesso che congiunge il corso terrestre con quello astrale. Medea uccide i frutti del suo ventre quando si rende conto che non ha più nulla da perdere, perché oramai ha già perso tutto. Uccide la discendenza del marito perché se il dolore è insanabile, la vendetta è pacificatrice. Un’eroina di inaudita ferocia ma anche una persona che sa confidarsi sommessamente a un’amica (Francesca Ciocchetti prima corifea) e che suscita, negli spettatori, pietà empatica per la sua sorte. Marinoni, con doti “magiche” d’attrice, con il magnetismo con cui ha preso la scena, è riuscita agli occhi del pubblico a trovare non solo giustificazione ma anche assoluzione (anche Dante colloca Giasone all’Inferno).
Raccontata da un nunzio (Sandra Toffolatti) come voluto da Euripide, la mattanza – che riguarda la rivale Glauce, incenerita dai doni di nozze dai poteri malefici, il suocero condannato alla medesima sorte, i due figli sacrificati come conigli – si è solo intuita dalle grida delle vittime e dalle luci rosso fuoco (Gianni Pollini). Il Coro di domestici è sempre intento a rassettare, ma questa volta il tappeto e le pareti vengono “ripuliti” dal loro innocente biancore usando strofinacci intrisi di sangue. Non è tempo di acqua purificatrice: è il sangue che lava le colpe. E, una volta cessate le urla strazianti provenienti da dietro le quinte, da quel mondo onirico creato dalla mente di Medea, resta solo il silenzio della morte. Resta solo la delirante, lucida, riconciliazione della vendetta.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona – Estate Teatrale Veronese, il 13 settembre 2023
Immagine di copertina: (c) Franca Centaro