Successo per il titolo inaugurale del Festival Verdi al Regio di Parma. Un taglio/‘stargate’ fra cristiani e mussulmani.
Un punto nero in campo bianco. Si allunga, diventa una linea verticale che si espande rapida per tutta l’altezza del fondale tagliando a metà la tela (in realtà un ledwall) e omaggiando la celebre pratica artistica di Fontana. Oppure, utilizzando una diversa chiave di lettura, squarcia la “quarta parete”, quella che teatralmente identifica il muro immateriale che divide attori e pubblico e che cade quando si raggiunge l’apice del realismo recitativo. Invece in questo caso la parete fessurata era quella posta alle spalle degli interpreti, dischiusasi a una narrazione visiva rispondente ai canoni del realismo e al contempo suggerendo un’apertura tra due mondi, quello cristiano e quello mussulmano. Un varco di passaggio e anche di contatto, di connessione; una sorta di sottile “stargate” che troverà compimento nella scena conclusiva.
A imprimere il taglio, prima dell’attacco dell’orchestra, in un prologo silenzioso, è stata Griselda, che di lì a poco si sarebbe abbracciata, sulla scena, con la violinista solista, ossia con la Musica personificata. La linea dello spacco si è poi addensata, si è fatta nebulosa come una macchia d’inchiostro e ha composto le videoproiezioni costituenti l’unico elemento scenografico. Quasi tutto era in bianco e nero, le chiese e le moschee, i vessilli dei Crociati e i deserti sabbiosi fuori Gerusalemme, mentre le luci (Massimo Gasparon) accecavano oppure creavano contrasti netti. Unica concessione ai colori, le rosse fiamme della distruzione e parte dei costumi, quelli orientali dai colori accesi e definiti, senza sfumature.
I Lombardi alla prima Crociata ha inaugurato il XXIII Festival Verdi al Teatro Regio di Parma (chi scrive ha assistito a una replica) dove ha fatto ritorno dopo 14 anni nel nuovo allestimento di Pier Luigi Pizzi, che ha firmato regia, scene, costumi e video. Pizzi, 93 anni portati con splendida vivacità e con un carnet denso di impegni per il futuro, è uno degli ultimi Maestri veramente grandi e che ha reso grande il mondo operistico. È, e ama definirsi, un architetto e in tutta la sua carriera ha sviluppato una propria ricerca estetica. I video – che come dicevamo hanno costituito l’unico elemento scenografico oltre a una predella circolare e qualche rialzo – hanno risposto a criteri narrativi e per l’appunto estetici. Le immagini, a volte fisse, a volte in movimento (fuoco e nuvole, ad esempio) sono state caratterizzate dalla ricerca delle linee prospettiche, di quei “punti di fuga” che per secoli sono stati studiati da pittori e architetti, come evidenziato nella prima videoproiezione che ha ricreato il cortile interno della basilica di Sant’Ambrogio a Milano con il rincorrersi delle ampie volte del colonnato. In questa perseguita essenzialità, l’azione scenica è stata ravvivata solo da brevi momenti coreografati (di Marco Berriel) e si è focalizzata su un susseguirsi pittorico di tabelaux vivants.
Su questo contesto si è innestata una regia di studiata e ben costruita linearità, che, come anticipato dallo stesso Pizzi, ha lasciato centralità a Verdi. Concetto ribadito non solo nella succitata pre-scena iniziale ma anche durante lo svolgimento dell’opera, con la collocazione sul palcoscenico, anziché dietro le quinte, di alcuni strumenti solisti tra cui il menzionato violino Mihaela Costea (applauditissima). Una regia, quindi, descrittiva e votata alla pura e semplice bellezza. Una ricercata semplicità che è apparsa modernissima, se non rivoluzionaria in questi anni caratterizzati dalla spasmodica ricerca del nuovo, del mai visto, del macchinoso al solo scopo di stupire. Pier Luigi Pizzi ha qui insegnato che bastano arte maestria e gusto per rendere piena giustizia a Verdi.
Dando ordine a una trama a dir poco caotica, il regista ha rafforzato il messaggio di Verdi e del librettista Solera (dal romanzo di Grossi) quanto mai attuale: la guerra è sempre ingiusta, anche quando è intentata con la scusante religiosa, vedasi le spade impugnate dal lato della lama e innalzate a mostrare la croce formata dall’elsa. Nell’ultimo quadro sono stati accantonati vessilli e cotte, veli e turbanti, e sono cadute le distinzioni. Tutti hanno indossato eguali vestiti e, attorniando Pagano morente (ma all’improvviso ringalluzzitosi) si sono abbracciati e presi per mano, guidati da due bambini recanti un violino, ossia la Musica dalla funzione pacificatrice. Una scena forse eccessivamente buonista e ottimista, tuttavia efficace nel chiudere il cerchio narrativo registico iniziato con quel taglio che si è dimostrato aver infine unito due mondi distanti, e ha suggerito come sia possibile re-imbiancare la “tela” e tracciare una nuova via, diversa dalla guerra.
Sul podio è salito Francesco Lanzillotta, per la prima volta al Teatro Regio di Parma e al Festival Verdi, in forma smagliante nonostante fosse ancora provato nel fisico dallo spaventoso incidente in moto di cui è stato vittima lo scorso agosto. A essere eseguita, l’edizione critica della partitura (che, ricordiamo, Verdi dedicò a Maria Luigia Duchessa di Parma) curata da David R. B. Kimbell e presentata per la prima volta a Parma. Alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini e, per le parti in scena, dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, Lanzillotta ha affrontato un dettato musicale di diversa sostanza, che alterna pagine nelle quali emerge il genio innovativo di Verdi ad altre considerate dagli studiosi meno riuscite. Il direttore ha dato unitarietà all’insieme, non cadendo mai nell’ “effetto banda” che è sempre in agguato in presenza di ritmi particolarmente scanditi. Muovendosi in splendida comunione d’intenti con il regista, Lanzillotta ha marcato con gusto luci e ombre, ha indagato i mille colori verdiani attraverso un fraseggio articolato, ha esaltato le preziosità e gli abbandoni lirici in una lettura di coinvolgente intensità estetica.
Nei Lombardi il coro riveste un ruolo a tutti gli effetti protagonistico. Istruito alla perfezione da Martino Faggiani, apparso pure in scena nelle vesti di se stesso, il Coro del Teatro Regio di Parma ha espresso il meglio delle proprie potenzialità, con sfoggio di colori e ragguardevole intensità non solo nel celebre “Oh Signore dal tetto natio”. La formazione corale infatti ha riservato all’ascolto molti momenti di grande pregio, vuoi per l’intonazione accurata, vuoi per gli attacchi precisi, vuoi per i chiaroscuri dinamici, non ultimo per le doti interpretative che hanno raggiunto il culmine in un “Gerusalem!” assolutamente emozionante.
Il più applaudito, per meriti e non solo per campanilismo, è stato il basso Michele Pertusi, considerato oggi punto di riferimento per il ruolo del cristiano Pagano, per il quale ha confezionato l’ennesimo capolavoro di raffinatezza. Una eleganza stilistica emersa in primis nel fraseggio, sempre più affinato, sempre più capace di delineare i molti mutamenti d’animo del personaggio dibattuto tra amore e odio, parricida per errore (doveva essere un fratricidio), vendicativo e preda di rimorsi, inquieto e in cerca di perdono. Tutto ciò, con voce morbida e resa espressiva da una gamma coloristica caleidoscopica e attentamente studiata.
Al debutto nel ruolo di Giselda era il soprano russo Lidia Fridman, la cui voce ha colpito innanzitutto per la potenza, tale da essere svettata in tutti gli assiemi. Il timbro è grintoso e ha affrontato questa parte assai difficile e insidiosa con temperamento e spiccata personalità. Il suo personaggio ha esternato una fede religiosa di granitica fermezza mentre il canto si è avvalso di solida tecnica per destreggiarsi fra drammaticità e lirismo, con belle concessioni alle agilità. E siccome nell’opera la vista è tanto importante quanto l’udito, non pare inappropriato sottolineare che ha indossato un abito bianco confezionato con un tessuto che “non perdona nulla” (nemmeno alle modelle professioniste) figurando in forma fisica perfetta. Sfoderando altresì una presenza scenica carismatica, capace di catturare l’attenzione al suo solo ingresso in scena.
Ottimamente assortiti in quanto dalle diverse caratteristiche vocali i due tenori, accomunati dalla bellezza degli squilli ben proiettati e ben sostenuti: Antonio Poli, Oronte, ha brillato per slancio e fraseggio, e Antonio Corianò, Arvino, ha dato prova di spicco per musicalità ed equilibrio. Bene, i personaggi di fianco, iniziando da Viclinda di Giulia Mazzola, soprano solita a rivestire ruoli protagonistici in teatri prestigiosi e che ha sfoderato duttilità e morbidezze. Poi i bravi Luca Dall’Amico, Pirro; Lorenzo Mazzucchelli, per un’unica recita Acciano; e gli allievi dell’Accademia Verdiana Zizhao Chen, Un Priore, e Galina Ovchinnikova, Sofia.
L’ultima replica del titolo è in programma il 15 ottobre.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi, il 29 settembre 2023
Foto © Roberto Ricci