Festival Verdi al Regio di Parma: i cieli neri e infuocati da Armageddon di Livermore e gli impeti oscuri e baluginanti di Ciampa.
Il cielo è plumbeo e cadono fitte le gocce di una pioggia strana, di grana grossa, luminescente come una scoria radioattiva. La periferia della metropoli è vista da chi la abita nei bassifondi, da chi affolla e domina quegli spiazzi suburbani dove vige la legge del più forte. Qui il mondo lo si osserva da sotto in su, alzando lo sguardo verso i grattacieli di acciaio e cristallo; sguardo che però i protagonisti non sollevano mai, ancorati a quel territorio circoscritto dai palazzi. L’acqua invade il terreno scuotendolo con liquido fremito, esondata dal fiume sulla cui sponda opposta si distinguono una ruota da luna park e un tendone circense a strisce bianche e rosse ingrigito dalla polvere.
Manrico è Il trovatore della Spagna quattrocentesca, ricollocato ai giorni nostri all’interno di un gruppo di girovaghi, di clown dal trucco dark e dall’aspetto inquietante. Una sorta di gang di strada che si fa preannunciare da un mangiafuoco e che si fronteggia col gruppo rivale, formato dai seguaci del Conte di Luna, tra bidoni e vecchi pneumatici: scarti di umanità accanto agli scarti della civiltà.
Nel cielo perennemente nero (luci ferrigne di Antonio Castro) la nevicata nucleare trasfigura in faville e le nubi tempestose si tingono di rosso fiammeggiante, foriere dell’apocalisse. La “pira”, l’ “orrendo foco”, la “terribil vampa” che “stride” invade le menti. È in cielo come in terra, riflessa nei palazzi che replicano specularmente se stessi e nelle acque increspate e impotenti. È un fuoco che arde dentro, incessantemente, fino a consumare, a incenerire, a trasformarsi in pioggia di scorie. È il dolore che brucia, e che alimenta il rogo.
Il Festival Verdi, nei suoi 23 anni di vita, ha abituato non solo a interpreti di prim’ordine ma anche a registi di fama stellare. Finora mancava all’appello Davide Livermore che per la sua prima volta al Teatro Regio e al Festival Verdi ha firmato un nuovo allestimento de Il trovatore, in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna, facendosi affiancare dal regista collaboratore Carlo Sciaccaluga.
Sulle meravigliose sequenze video da Armageddon (D-Work), Livermore ha innestato alcuni elementi divenuti ormai tradizionali: cappotti similmiltari in similpelle con stivaloni da guerriglia urbana (costumi Anna Verde), un convento/ospedale dalle pareti scrostate (scene Giò Forma) e poi mitragliette e pistole, il fumo di una sigaretta, lo schermo di un telefonino usato per impartire ordini. Nulla di nuovo, tutto già visto. Ciononostante Livermore ha utilizzato questi elementi di routine dando loro nuova veste, talvolta inedita funzione; muovendosi non alla ricerca dell’invenzione fine a se stessa ma perseguendo il compito di far percepire allo spettatore quanto le tematiche verdiane etico-politiche siano attuali. Il tutto, con la profondità della scansione narrativa che contraddistingue il regista.
Aborrita dunque la verdianità incline al romanticismo e alle atmosfere lunari (per quanto una gigantesca luna abbia mostrato la sua falce), si è assistito a una rilettura forte, potente, angosciante, da fine del mondo, nella quale è sempre stata mantenuta una tensione emotiva vibrante, fremente come le acque che hanno invaso vari ambienti senza mai riuscire a spegnere il fuoco. Nell’intervista fattagli da Angelo Foletto e pubblicata sui libretti di sala, Livermore ha affermato con convinzione che «cercare i segni della tradizione in Verdi è un errore: una pigrizia di cui liberarci». E ancora: «Verdi ci chiede di fare i conti con la realtà, fino a toccare i lati oscuri dei sentimenti». Il regista quindi ha ripercorso i passi del Verdi rivoluzionario, che amava urticare i “benpensanti” e sapeva come farlo.
In sintonia con questa concezione, il direttore Francesco Ivan Ciampa, avvalendosi dell’edizione critica di David Lawton, ha guidato Orchestra e Coro (preparato da Gea Garatti Ansini) del Teatro Comunale di Bologna attraverso una lettura anch’essa giostrata su tinte scure ancorché brillanti, alla ricerca delle tenebre che si annidano nell’animo umano e che lo illuminano di luce lacerante. Un’atmosfera musicale densa e dai forti contrasti sempre misurati, ravvivati da lampi di luce, da bagliori impetuosi e da rallentamenti lirici, mai cedendo alla tentazione di una marcatura di troppo, con gusto.
È acclarato che in Trovatore la vera figura protagonistica sia Azucena. A dare voce alla zingara era Clementine Margaine, di forza dirompente, di inscalfibile potenza di fiato, che ha cinto il proprio timbro di appropriati contorni foschi e taglienti, cantando spesso con il mento proteso sul petto, come se la voce uscisse magicamente dal profondo, insinuandosi tra le fiamme. Solitamente il punto dolente del mezzosoprano è il profilo interpretativo, ma le va riconosciuto di essersi trovata a proprio agio raffrontandosi convincentemente con questa figura dall’indole aspra e dalla mente allucinata.
Riccardo Massi possiede bella voce, bel timbro e bella presenza scenica, favorita dal fisico di alta statura. Ha affrontato con esiti egregi il do in “Di quella pira”, tenendo a lungo l’acuto finale, limpido. Mostrando propensione per le aperture liriche, alimentate da un fraseggio dolce e aggraziato, il tenore ha presentato un Manrico tormentato, preda di turbamenti.
Francesca Dotto, soprano dal timbro fresco e dai colori smaltati, dalla spiccata musicalità e ben destreggiatasi nei passaggi di agilità, ha magnificamente dato a Leonora una sorta di aura di estraneità nel trovarsi in quel contesto duro e spietato.
Franco Vassallo, dalla voce attentamente controllata nei volumi, avvalendosi di un apprezzabile fraseggio, è riuscito pienamente nell’intento di racchiudere nel Conte di Luna un dolore talmente vasto da diventare universale e ne ha fatto un personaggio splendidamente dolente, piuttosto che il solito cattivone tout court.
Si è distinto come Ferrando Riccardo Fassi, giunto in sostituzione dell’indisposto Marco Spotti e calatosi subito nel ‘mood’ registico con efficace gestione dei propri mezzi, coronati dal timbro naturalmente affascinante. A completare degnamente il cast l’allieva dell’Accademia Verdiana Carmen Lopez, Ines, alla quale va uno speciale ‘brava’. Complimento da estendere a Didier Pieri, incisivo Ruiz. Corretti Enrico Picinni Leopardi, Un messo, e Sandro Pucci Un vecchio zingaro.
È infine questa l’occasione giusta per ringraziare una categoria di lavoratori sovente dimenticata nelle recensioni: il personale di sala sempre pronto a risolvere con gentilezza i piccoli grandi problemi del pubblico, che a Parma vanta una notevole percentuale di presenze da vari Paesi del mondo.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi, il 5 ottobre 2023
Foto Roberto Ricci