Al Teatro Filarmonico di Verona, l’opera in scena per la prima volta in Italia dopo 152 anni. Direttore Giuseppe Grazioli, regia Paolo Valerio. Cast tutto italiano.
Audentes fortuna iuvat. La coraggiosa messa in scena di questo titolo riscoperto dopo lunghi anni di oblio ha confermato il detto. La proposta ha attirato appassionati e cultori da ogni dove, a coronare un successo fondato sull’elevata qualità artistica.
Solitamente il tempo è un buon giudice e coloro che cadono nel dimenticatoio meritano tale destino. Tuttavia ci sono eccezioni, ci sono autori ai quali forse è mancato solo un pizzico di buona sorte per essere ricordati, o un briciolo in più di fiducia nei propri mezzi, o ancora l’audacia della perseveranza. Franco Faccio di “fortuna” (intesa come dea bendata dispensatrice del destino) ne ha avuta molta in vita come direttore d’orchestra, poca come compositore e ancora meno dopo la morte. Meritava una riscoperta? Certamente sì, nella speranza che non resti un caso isolato e che questo allestimento in futuro possa essere ripreso e circuitare.
La natìa Verona aveva già acceso un riflettore su Franco Faccio (1840 – 1891) grazie alla Fondazione Zanotto che nel 2020, per celebrare il 180° compleanno del compositore, aveva distribuito un volumetto, corredato da un’appendice iconografica, in cui Oreste Ghidini e Nicola Guerini ne ripercorrevano le tappe umane e artistiche. È lampante che il miglior omaggio che si possa rendere a un musicista sia rappresentare una sua opera e difatti nello stesso 2020 al Teatro Filarmonico era stata programmata la messa in scena di Amleto. Senonché il lockdown da pandemia ha costretto a rimandare l’ambizioso progetto, che ha finalmente trovato attesissima e felice conclusione in questo autunno 2023.
Il Teatro Filarmonico non a caso viene definito “l’altra faccia dell’Arena” perché, mentre il festival estivo ruota esclusivamente attorno a titoli di fama planetaria, il cartellone invernale sa osare, in questo caso rischiare, sotto l’intrepida, vincente, direzione artistica di Cecilia Gasdia, riuscita a condurre in porto Amleto in prima nazionale dopo ben 152 anni di assenza dall’Italia. Un titolo travagliato fin dalla sua nascita.
Il debutto avvenne con successo a Genova nel 1865. Poi l’opera fu stoppata per subire alcuni rimaneggiamenti fino all’unica sfortunata ripresa alla Scala del 1871. Fu un fiasco, si dice attribuibile all’indisposizione che affliggeva il tenore e a talune sue libertà di esecuzione. Fatto sta che Faccio la prese male e abbandonò ogni velleità da compositore per dedicarsi alla direzione d’orchestra, diventando una delle bacchette più stimate della Milano del tempo: diresse la prima italiana di Aida e la prima alla Scala di Don Carlo, e le prime di Otello e Lohengrin. Di Verdi portò le opere in tournée a Vienna e guidò le espatriate in Francia dell’Orchestra della Scala. Si ammalò giovane e morì a 51 anni.
Dopo Genova e Milano, di Amleto si persero le tracce, tanto che la partitura pareva perduta. Fu scovata, frammentaria, presso l’editore Ricordi, dal direttore statunitense Antony Barrese che ne ricucì i pezzi e la eseguì a Baltimora in forma di concerto e ad Albuquerque in forma scenica. Resta negli annali la sortita di Amleto al celebre festival di Bregenz nel 2016, cui seguì una incisione video e discografica. Così, dopo un viaggio oltreoceano, Amleto di Franco Faccio ha fatto ritorno prima in Europa e ora in Patria, a Verona, dove è stato eseguito nell’edizione critica che Barrese confezionò mettendo assieme le versioni di Genova e di Milano (di cui è andata perduta la rinnovata scena conclusiva, mentre ci resta il primigenio finale genovese). La rappresentazione teatrale è stata preceduta da una conversazione mattutina d’approfondimento tenutasi a Palazzo Maffei.
Sarebbe sbagliato osannare questo Amleto come un capolavoro assoluto, così come sarebbe errato denigrarlo e chiuderlo nuovamente dentro un armadio. La musica presenta pagine di assoluto valore, assemblate in un contesto multiforme e volutamente disordinato. Volutamente, perché Faccio e il librettista Arrigo Boito, affezionati amici, erano ferventi seguaci della Scapigliatura. Poco più che ventenni, il loro intento era di dettare nuovi canoni estetici per il teatro musicale utilizzando un linguaggio (note e parole) spiazzante, caratterizzato da evidenti commistioni fra la tradizione, la creatività, l’innovazione e la sperimentazione.
Nella musica di Franco Faccio troviamo influssi franco-tedeschi, da Wagner a Mayerbeer, ma si distingue anche nettamente quello stesso Verdi al cui “monopolio” Faccio/Boito si prefiggevano di dare un’alternativa. Al di là delle influenze, il merito ravvisabile nella partitura di Faccio è stato l’aver trovato una strada propria e personale. Di lui, ad esempio, colpisce l’inventiva melodica, nonostante abbia inserito la melodia con mano parsimoniosa. La sua propensione a scivolare nel prolisso, nel magniloquente, è frutto di esuberanza giovanile, del desiderio di stupire. L’ingegno del compositore e la sua ricerca coloristica hanno toccato vertici di tutto rispetto nelle numerose introduzioni sinfoniche ai vari quadri, e nell’intensa scena della morte di Ofelia, con la marcia funebre che è un autentico gioiellino.
Ciò che oggigiorno, a modesto giudizio della scrivente, desta maggiori perplessità è il testo di Arrigo Boito, che con Amleto era al suo primo cimento come librettista. Il suo linguaggio scapigliato è sfociato in una fantasiosità a dir poco fervida, che dalla sintassi si estende all’invenzione, farcita però da termini arcaici (gli studiosi ravvisano rimandi a Dante, tanto perché Boito voleva innovare!). Fatto sta che le parole e le frasi astruse (chiediamo scusa: il testo di “essere o non essere” versione boitana proprio non si può sentire) sono presenti in tal numero e con tale frequenza da indurre a tirare fuori il vocabolario. Di contro, fanno sorgere il sospetto che ci sia il sotteso intento scapigliato di deridere una certa società paludata avvezza al “birignao”. Peccato, peccato davvero che nel volume di sala non fosse pubblicato il libretto che, ne siamo certi, avrebbe permesso di gustarsi con calma altre perle dalla comprensibilità cervellotica.
Proprio il testo, a modesto giudizio della scrivente, potrebbe forse essere stata una concausa che ha portato l’opera a essere dimenticata: i parti artistici di qualsivoglia natura, dalla pittura alla letteratura alla musica eccetera, valicano i secoli se riescono a parlare a più generazioni, se riescono a restare attuali nel presente di ogni epoca. Shakespeare lo fa; Boito, in questa occasione, decisamente meno. Tuttavia a Boito, che di lì a poco sarebbe divenuto uno dei maggiori librettisti di tutti i tempi, va riconosciuto l’enorme pregio di aver ricalcato fedelmente la trama di Shakespeare, pur nel necessario sunto operistico, e di avere abilmente conservato le medesime atmosfere sublimemente tratteggiate dal Bardo, tra il drammatico (prevalente) e il faceto, tra la levatura e il grottesco, tra il reale e l’onirico. Ossia, riassumendo, tra bene e male, tra luce e buio.
Aspetto quest’ultimo valorizzato nella regia di Paolo Valerio, che ha efficacemente traghettato ai giorni nostri, con fedeltà classica ed estetica contemporanea, l’imperitura attualità di Shakespeare. Il regista è anch’egli una gloria veronese, al suo primo approccio all’opera lirica ma di vasta esperienza nell’ambito della prosa e soprattutto è un profondo conoscitore del Bardo. La sua impostazione ha denotato rispetto per la fonte così come per il compositore riscoperto. Ogni scena dell’opera infatti è stata scandita dalla proiezione dei righi musicali autografi con le annotazioni di pugno di Faccio. Si badi bene, a colori invertiti: pentagrammi bianchi su fondo nero, facendo propria quella ricerca shakespeariana dei contrasti tra luce e tenebre di cui si diceva poc’anzi. Aiutato in ciò dal contesto cupo dalle venature immateriali (splendide le luci di Claudio Schmid).
Paolo Valerio si è mosso con abilità e con intelligenza. Proprio come il compositore, anche il regista ha compiuto un meticoloso lavoro sui personaggi, inserendoli in una costruzione teatrale in cui gli stessi hanno trovato attente definizioni. La sua visione registica ha avuto innanzitutto il pregio della linearità, di una espressività basata sul simbolismo e su un minimalismo inteso come essenzialità, che se da un lato ha alleggerito l’opera (che ne aveva grande bisogno) dall’altro lato ha saggiamente mantenuto pochi elementi caratterizzanti i personaggi: per fare un esempio banale, la corona di Re e Regina. Decisione saggia per facilitare il pubblico nel seguire una narrazione sconosciuta. In tal senso hanno aiutato anche i begli abiti (di Silvia Bonetti) giostrati in efficace compromesso fra tradizione e modernità.
Se la processione e la veglia funebre di Ofelia hanno raggiunto il culmine del pathos, divertente è stato l’aver trasformato la recita inscenata davanti al Re di Gonzaga in uno spettacolo di burattini umani, legati a fili rossi mossi da Amleto. Non sono mancate le scelte registiche tecnico-espressive, a iniziare dal velario sfrangiato che ha contribuito a immergere in un’atmosfera mutante ed evocativa (scene e projection design di Ezio Antonelli).
Il classico escamotage di uno specchio ha dato modo ai personaggi di confrontarsi con la propria interiorità, aprendo un varco tra la fisicità terrena e il luogo immateriale dell’onirico; parallelamente, uno spazio al centro della scena ha collegato la realtà con il mondo del magico e del soprannaturale tanto amato da Shakespeare, ospitando apparizioni, spettri e fantasmi. L’estetica d’ispirazione pittorica si è ravvisata in alcuni tableau vivant e nella disposizione delle masse dei coristi che, visivamente, hanno fatto da contorno ai protagonisti sui quali è sempre stato mantenuto il focus.
In efficace sinergia d’intenti si è mosso il podio. Giuseppe Grazioli (al posto dell’inizialmente annunciato Alessandro Bonato) alla guida di Orchestra e Coro dell’Arena di Verona, ha esaltato al meglio ciò che di notevole è ravvisabile in partitura dedicandosi in special modo alla tavolozza coloristica e alla ricchezza timbrica, cercando di alleggerire talune ripetitività, certe sovrabbondanze, e intervenendo con gusto sulle dinamiche finalizzandole al bilanciamento complessivo delle esuberanze autorali. Grazioli ha esaltato sia le molteplici pulsioni innovative di Faccio sia i pregi dell’orchestrazione, e al contempo ha ripulito il dettato dall’enfasi e dalla retorica. Esiti davvero notevoli ha raggiunto nelle pagine sinfoniche, oltre che nel funerale di Ofelia.
Il Coro si è destreggiato con maestria brillando per la pastosità dell’amalgama, egregiamente preparato da Roberto Gabbiani. Sul palcoscenico sono saliti artisti di respiro internazionale che hanno assicurato quella qualità indispensabile al successo dell’operazione di riscoperta. E il fatto che fossero tutti italiani ha indubbiamente costituito una garanzia per superare le insidie insite nella musica, non solo da studiare ex novo ma che probabilmente gli interpreti mai più canteranno in futuro (noi invece speriamo di sì); musica assai impegnativa, ricca di insidie e asperità tecniche necessitanti di voci esperte.
A iniziare dal ruolo di Amleto, per il quale Faccio ha scritto note particolarmente ardite, che mettono a dura prova le corde vocali dai registri più bassi fino a quelli acuti. Nella recita cui abbiamo assistito, il principe di Danimarca era il tenore Samuele Simoncini, entrato nel mood del personaggio inquieto e tormentato, fragile psicologicamente quanto scosso da moti di furore. Simoncini è avvezzo a vestire panni drammatici e la sua vocalità squillante si è rivelata appropriatamente vigorosa, supportata da un attento scavo sul fraseggio.
Accanto a lui era Eleonora Bellocci, la cui Ofelia era dolce e poetica quanto intensamente tragica nella definizione del fraseggio. Accurata nell’intonazione e nella scelta coloristica, delicata nell’emissione e salda nella tenuta del mezzo vocale, il soprano ha dato il meglio di sé nell’aria della pazzia.
Timbro scuro, volumi generosi e morbidi: di caratura Marta Torbidoni che ha superato inappuntabilmente la parte impervia della Regina Geltrude, una figura emersa in tutta la sua complessità, compreso il sentimento di pentimento sul suo essere siffatta madre, assente in Shakespeare e inserito da Faccio/Boito nel duetto con il di lei figlio Amleto, che il soprano ha eseguito con slancio emotivo. Di non minore difficoltà il ruolo di Re Claudio, ben centrato dal baritono Damiano Salerno con voce squillante e potente, levigata e rotonda, mentre sul piano attoriale giostrato fra sentimenti appropriatamente cupi, esiti di un rovello interiore, tra superbia e sensi di colpa sfociati in un riflessivo “Padre nostro”.
Il tenore Saverio Fiore si è ben destreggiato tra i frequenti recitativi anch’essi tecnicamente impegnativi: Laerte di buone maniere e non privo di patimenti interiori. Inoltre, i quattro bassi previsti nell’originale partitura, ben assortiti per le differenti caratteristiche vocali, iniziando da Abramo Rosalen, tonante e logorroico Spettro, ben timbrato, ottimamente fraseggiato e dagli appropriati colori lugubri e inquietanti. I due seguaci di Amleto, entrambi dall’emissione aggraziata, Alessandro Abis Orazio, e Davide Procaccini Marcello. Non ultima,la musicalità diFrancesco Leone come Polonio, avvezzo a ordire trame.
Infine si sono distinti Francesco Pittari, Re di Gonzaga; Marianna Mappa, La Regina; Enrico Zara, Araldo; Maurizio Pantò, Sacerdote; Nicolò Rigano, Luciano; Valentino Perera, Becchino.
La replica del venerdì era assai affollata, con una significativa presenza di pubblico giovane. Ci auguriamo che il tiolo riscoperto possa essere in futuro nuovamente ritirato fuori dal cassetto, come importante testimonianza di un’epoca di grande fermento musicale, nella quale Faccio merita che gli sia restituito un posto di rilievo.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico Verona il 27 ottobre 2023
Foto Ennevi