Filippo Dini dirige una compagnia affiatata nella commedia di Tracy Letts che ha vinto il Pulitzer. Splendida prova di Anna Bonaiuto e Manuela Mandracchia.
“Agosto a Osage County” è una commedia drammatica che presenta sottesi sprazzi ironici, valorizzati nella messa in scena. Uno spaccato contemporaneo di esistenze costellate da contraddizioni, da affetti e buoni sentimenti come da lati oscuri, da vendette, ripicche e livori, fino ad arrivare a tradimenti e incesti.
L’estate è afosa nelle pianure dell’Oklahoma. Proprio la calura soffocante e il panorama privo di orizzonti costituiscono metaforicamente i nodi cruciali del racconto di Tracy Letts, che ha preso a prestito il titolo dal poeta Howard Starks per rivelare quanto di soffocante e tarpante possa esserci nelle relazioni famigliari.
Il padrone di casa, un poeta alcolizzato, sparisce misteriosamente, si saprà poi per suicidarsi, e la tribù dei parenti si riunisce per stare accanto alla matriarca Violet, afflitta da un cancro alla bocca in fase terminale. I rapporti sono asfissianti più del clima, le vite paiono piatte più del paesaggio.
Eppure l’autore di Tulsa – che oltre al Pulitzer del 2008 per questa drammaturgia, nella sua multiforme carriera ha anche vinto un Tony Award come attore – stupisce con continui colpi di scena, con rivelazioni che mutano incessantemente le dinamiche e le prospettive. Nel contesto cupo, il ritmo narrativo è più che vivace, frenetico. Il successo dello spettacolo va spartito equamente fra la base letteraria e la messa in scena che, nella sua durata di oltre tre ore, ha mantenuto sia l’incalzare del testo che la profondità dei contenuti.
La produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale ha affidato nelle mani di Filippo Dini, regista e attore, questa commedia che debuttò a Chicago nel 2007 e che nello stesso anno approdò a Broadway, per poi diventare nel 2013 un film pluripremiato e con un cast stellare. La prima versione italiana, nella bella traduzione di Monica Capuani, ha inaugurato il cartellone MantovaTeatro, accolta nell’ultra affollato Teatro Sociale di Mantova. Un bravo va anche al direttore artistico della stagione promossa dalla Fondazione “Artioli”, Raffaele Latagliata che dal suo insediamento è riuscito a riportare in sala il pubblico, anche giovane.
A mantenere serrato il ritmo ha contribuito la scenografia (scene Gregorio Zurla, luci Pasquale Mari) che prevedeva una serie di stanze girevoli mosse manualmente a vista, con un richiamo subliminale alla tradizione antica ma anche al metateatro. Scene che hanno riproposto visivamente i rapporti umani mutevoli, in incessante cambiamento; un ambiente labirintico rivelatosi una prigione, però non claustrofobica bensì vischiosa come colla rappresa al caldo impietoso dell’Oklahoma.
Filippo Dini, con l’ausilio del dramaturg e aiuto regista Carlo Orlando, ha fatto emergere gli aspetti ironici del testo senza cadere nel solito effetto tragicomico (gli perdoniamo lo sconfinamento della scena simil-musical) e ha trattato con eguale incisività le varie “facce” della pièce. Così, gli input sottilmente umoristici hanno assunto una meravigliosa gamma di sfaccettature: beffardi, irridenti, sarcastici, assurdi, grotteschi, soprattutto caustici e corrosivi. Dini ha messo in scena la cruda, a volte crudele verità narrata da Letts, evidenziando quanto la realtà possa assumere contorni surreali nella sua imprevedibilità.
Nei rapporti interpersonali narrati da Letts l’amore è soffocato dall’odio, e quest’ultimo è generato da invidia, insofferenza, esasperazione che incidono sui legami parentali, sviluppati oppure negati ma sempre forti, sempre taglienti come acciaio. Mentre nella regia di Dini si ravvisa in particolare (tra i tanti) un richiamo a Čechov, e non solo perché le tre figlie di Violet possono essere paragonate alle tre sorelle cecoviane. Dini infatti traccia un parallelo profondo tra i rapporti intergenerazionali descritti dall’americano e dal russo, e si muove come un funambolo sul filo delle contraddizioni tra l’essere e il dire, sulla sostanza non rispondente all’apparenza, ossia su quella maschera che nasconde la vera natura delle persone agli occhi della società borghese.
Il titolo prevede un cast numeroso di co-protagonisti, senza comprimari, perché tutti i personaggi (costumi Alessio Rosati) hanno avuto il loro spazio oltre che un quadro solistico nel rutilare delle scene di gruppo (musiche Aleph Viola). I personaggi e di conseguenza gli attori erano ingranaggi di uno stesso meccanismo che la regia ha fatto muovere all’unisono, con incastri perfetti.
A capitanare il gruppo era Violet Weston, interpretata da Anna Bonaiuto (giunta a dare una ulteriore crescita qualitativa al cast del debutto) a dir poco splendida nei panni di una donna in bilico tra la follia e la razionalità. Cinica, con la sigaretta perennemente tra le dita, imbottita di psicofarmaci causa la malattia eppure lucida e spietata nei giudizi e imperiosa nel rimettere in riga il parentado, verso il quale vomita veleno con epiteti espliciti. L’attrice ha saputo esprimersi con studiata naturalezza facendo del personaggio una persona vera. Oltretutto Bonaiuto ha magistralmente adeguato l’eloquio alla condizione fisica della donna col tumore in bocca, facendone intuire le difficoltà linguistiche eppure risultando perfettamente comprensibile al pubblico. Davvero una prova superlativa.
Accanto alla capo-famiglia abbiamo trovato sul palco tutti interpreti di serie A e tutti rispettosi del contesto in cui la componente maschile è messa in ombra da quella femminile; un contorno sfuocato nell’ambito di questo nucleo famigliare dove a dettare legge sono le donne in quanto sono più forti e anche più intelligenti dei loro compagni.
Le tre figlie di Violet presentavano differenze attoriali efficacemente assortite. Iniziando dalla eccellente Manuela Mandracchia, Barbara Fordham che ha dapprima preso le distanze dalla madre, poi l’ha seguita nel processo autodistruttivo e infine ha iniziato il duro percorso di riplasmare se stessa dalle proprie ceneri. Le altre sorelle, che lottano per non soccombere alla vita, erano Stefania Medri, Ivy Weston ostinata nella ricerca della serenità, e Valeria Angelozzi Karen Weston, la più timida e riservata delle tre.
Poi, il marito di Violet, Fabrizio Contri, incisivo Beverly Weston, a suo modo affettuoso perché prima di sparire ha un pensiero di accudimento per la moglie malata e le assicura l’aiuto di una cameriera. Lo stesso attore ha successivamente vestito i panni dello Sceriffo, che pareva uscito da un classico telefilm americano.
L’ex marito della figlia Barbara era Filippo Dini, Bill Fordham, che ha abbandonato la moglie per unirsi a una giovane studentessa, il solo capace di dire “basta!”. La figlia quindicenne di Barbara e Bill, Jean Fordham, aveva la lunga chioma bionda di Caterina Tieghi intenta alla sua musica e ai suoi programmi tv.Come fragile fidanzato di Karen, Fulvio Pepe, Steve Heidebrecht.
La sorella di Violet era la bravissima Orietta Notari, abile negli innumerevoli mutamenti caratteriali indispensabili a delineare Mattie Fae Aiken grintosa e graffiante fino alla ferocia, detentrice di un segreto finora inconfessato. Con lei, suo marito Andrea Di Casa, il viscido Charlie Aiken, e il loro figlio Edoardo Sorgente, il distratto Charlie Piccolo Aiken.
A tenere silenziosamente insieme questo strampalato gruppo, la cameriera, Valentina Spaletta Tavella incisiva nel ruolo diJohnna Monevata che prevedeva poche battute, un intenso breve monologo e una pressoché costante presenza muta in scena. Sarà lei, indiana nativa di quella terra occupata dai coloni per i quali ora lavora, la sola a stringere infine Violet in un abbraccio sinceramente affettuoso.
Finalmente si è ritrovato il corpo annegato del suicida e si è celebrato il funerale, mentre i nodi relazionali sono rimasti lontani dal sciogliersi, anzi si sono aggrovigliati sempre più. Nodi complessi, perché complicata è la vita. C’è stato un passato, c’è questo nuovo presente, ci sarà un futuro da riscrivere mettendo assieme i cocci spezzati dalla reunion familiare, come un vaso che, sbriciolandosi, rivela solo in quel momento il suo contenuto.
Non una esplosione ma una implosione, perché l’urna si svuota da se stessa e il suo interno, una volta fuoriuscite frustrazioni e rancori, scontri e vendette, invidie e delusioni, accuse e rinfacci, è vuoto, è un buco nero, una voragine apertasi sul terreno delle relazioni familiari inaridite dal torrido clima del Midwest, dove però il giorno del funerale di Beverly piove.
La pioggia lava via qualche sassolino dalle scarpe e la famiglia, assisa al desco post rito funebre che sembra un tavolo da allegro banchetto, ritrova per un fugace attimo un dialogo, per poi ripiombare subito nelle incomprensioni, nell’incomunicabilità. Si intuisce che, dopo quel giorno, i contatti cesseranno definitivamente, che la famiglia non si incontrerà mai più. Le relazioni sono diventate venefiche come il cancro che devasta la bocca di Violet (sì, ovvio, Pirandello!).
E qui l’autore, come letto dal regista, ancora una volta riserva un colpo di scena che spiazza lo spettatore. Perché quell’ultima rottura insanabile, quella devastazione interpersonale giunta al culmine finalmente risolve il dramma, lo addolcisce, ce lo mostra in un’ottica poetica.
Non ci sono più aspettative, tutto è stato detto e alla fine degli intrecci labirintici resta la vita, che ci fa esistere in quei pezzetti di noi che lasciamo negli altri e che germogliano, nel bene come nel male. Resta solo la vita e il suo angoscioso lamento, che si stempera in una dolce amorevole ninna-nanna cheyenne.
Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Sociale di Mantova – MantovaTeatro, il 7 novembre 2023
Immagini della Compagnia: © Photo Luigi De Palma