La classicità non teme l’innovazione e viceversa. In teatro entrambe convivono e recano un messaggio emozionale vivo e coinvolgente. Il Teatro Regio di Parma, “tour operator” per esploratori del tempo, ha organizzato un viaggio nella storia del melodramma, affascinante e carico di suggestioni. Un ballo in maschera, titolo inaugurale della Stagione Lirica 2019, coprodotto con Auditorio de Tenerife e Royal Opera House Muscat, ha avuto come protagonista acclamato un materiale fragile e deteriorabile: la carta, elemento per eccellenza delle maschere che celano i sembianti, favoriscono scherzi e giochi amorosi, permettono l’anonimato agli assassini, inoltre base per costruzioni scenografiche.
Il libretto che Antonio Somma confezionò per Giuseppe Verdi ispirandosi al dramma di Eugène Scribe, trae spunto da un reale fatto di cronaca accaduto nella seconda metà del Settecento, ossia l’attentato, durante una festa in costume, a Gustavo III Re di Svezia, che morì dopo pochi giorni dal ferimento. La censura rese necessario il trasferimento geografico dall’Europa all’America e la sostituzione del protagonista con Riccardo Conte di Warwick, governatore di una colonia inglese a Boston, ucciso dal suo segretario, il creolo Renato, erroneamente convinto di essere stato tradito dalla moglie.
Quando, con stupefacente abilità pittorica, Giuseppe Carmignani dipinse su carta le scenografie per l’allestimento del 14 settembre 1913, celebrativo del primo centenario verdiano, Un ballo in maschera aveva oltre cinquant’anni. Carmignani (autore degli ornati della sala del Regio e allievo di un collaboratore di Verdi) si discostò leggermente dalle annotazioni sceniche del compositore e impostò il disegno delle architetture ad angolo, imprimendo una magnifica fuga prospettica e quella profondità tridimensionale ora valorizzata dalle luci di Guido Levi. Che l’angolatura abbia costituito una difformità dai dettami verdiani è un particolare appreso durante la visita alla mostra documentaria “Nelle felici stanze”, a cura di Giuseppe Martini, allestita nelle sale adiacenti al Ridotto nel periodo delle recite. Infatti il rinvenimento fortuito nei magazzini del Regio degli ultracentenari fondali e quinte, ha rinnovato l’attività di studio, mentre la loro riproposizione in sede di spettacolo ha coinciso con il restauro conservativo realizzato da uno staff di esperti e curato da Rinaldo Rinaldi in accordo con la Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza. Durante il preludio dell’opera, si sono potute vedere le fasi del lavoro certosino di ripristino e rinforzo delle parti ammalorate, attraverso il video di Stefano Cattini, in cui il montaggio delle immagini ha corrisposto ai piano e forte musicali e ha rivestito esso stesso valenza scenica.
Coadiuvata da Leila Fteita per il coordinamento dello spazio e dei pochi arredi, rivestiti anch’essi di carta spolvero, la regia di Marina Bianchi si è sagacemente tarata sulla presenza, ingombrante in tutti i sensi, dei fondali dipinti. La sua regia ha trasudato «amore per la memoria», come ha affermato lei stessa nel far rivivere, con spiccata intelligenza, le atmosfere d’altri tempi anche sotto l’aspetto attoriale. Del resto Bianchi ha maturato esperienza, tra gli altri, accanto a Strehler, che fu uno straordinario innovatore e al contempo riscopritore dei canoni teatrali antichi. La recitazione si è dipanata funzionale al racconto, con un approfondimento mininvasivo sulla psicologia dei personaggi, spesso non interagenti tra loro ma con gli interpreti rivolti al podio, fattore che ha completato l’illusione di immersione nel passato, spurgato dalle sovrabbondanze. Uniformati all’insieme i costumi di Lorena Marin di seicentesca leggiadria, con un tocco tribale nel diroccato antro della fattucchiera, attorniata da seguaci dai corpi tatuati.
Eccelsa è stata la concertazione e direzione.Consensi senza riserve, anche da parte dei temibili loggionisti del Regio, per Sebastiano Rolli, la cui luminosa carriera meriterebbe una ancor più rapida ascesa verso l’Olimpo direttoriale. Rolli ha guidato l’Orchestra Filarmonica Italiana rinforzata dall’Orchestra Giovanile della Via Emilia seguendo un filo conduttore di compattezza formale e di fantasmagoria coloristica ravvisabile nelle dinamiche, nel caleidoscopio di accenti e sfumature, nella descrittività cangiante dei sentimenti verdiani multisfaccettati. Elementi che si sono susseguiti con fluidità e limpidezza d’intenti dalla prima all’ultima pagina. Una lettura vivace sotto il profilo emozionale proceduta di pari passo con la sublime inventiva del Cigno di Busseto, che ha alleggerito il dramma ponendolo sotto un velo di ironia, ha equilibrato i due elementi e vi ha unito l’amore, con i suoi slanci, i dubbi, i contrasti, le sue esaltanti ragioni e le sofferenti rinunce.
Nella riscoperta e valorizzazione del passato, è balzato all’orecchio come le voci abbiano tratto ovvio giovamento dall’essere ristrette in proscenio e proiettate verso la platea, non distratte da movenze complicate o acusticamente dispersive come sovente accade oggigiorno. Il tenore Saimir Pirgu ha acuto limpido e potente e dosa con garbo l’emissione alla ricerca dell’espressività; Riccardo tanto sincero nel sentimento d’amore quanto risoluto nel metterlo a tacere in nome dell’onestà. Ha vestito i panni di Renato, con il necessario rigore nella resa attoriale, Leon Kim, di pastosa omogeneità nella linea di canto, voceben timbrata e dall’ottima dizione, che ha approfondito l’uso del fraseggio innestandolo nella piena consapevolezza del contesto musicale e narrativo. A pochi giorni dalla Prima, Irina Churilova ha sostituito l’indisposta Virginia Tola nel dar vita ad Amelia, dolce e fragile ancorché capace di slanci d’affetto. Il giovane soprano di Novosibirsk presenta vocalità calda, in tutta la gamma appropriata alla parte, che ha affrontato con capacità di introspezione. Con timbrica brunita Silvia Beltrami ha avvolto in un alone di esotico mistero la maga Ulrica.
Benché prima dell’aprirsi del sipario fosse stata annunciata una sua lieve indisposizione, Laura Giordano ha portato a termine una prova ottima, sfoggiando con brillantezza l’agilità vocale e “che corre” indispensabile al paggio Oscar, ruolo en travesti assai impegnativo sotto il profilo tecnico e interpretativo; un essere che incarna la libertà, che pensa e palesa i propri sentimenti senza sovrastrutture. Corretti Fabio Previati, il marinaio Silvano; i due congiurati Tom e Samuel, rispettivamente Emanuele Cordaro e Massimiliano Cattelani;infine Blagoj Nacoski Giudice e Servitore. Ineccepibile sotto ogni profilo il Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani e di valore gli elementi del Corpo di ballo Artemis Danza su disegno coreografico di Michele Cosentino.
La ricerca storica ha trovato completamento nel libretto di sala dove è riportata la versione della prima rappresentazione del febbraio 1859 al Teatro Apollo di Roma. Nel centenario della morte del direttore parmigiano Cleofonte Campanini, ideatore e finanziatore delle celebrazioni verdiane del 1913, la data inaugurale è stata dedicata a Marcello Conati, insigne musicista e musicologo recentemente scomparso.
Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 16 gennaio 2019
Contributi fotografici: Roberto Ricci