Teatro Filarmonico di Verona: un divertissement e un dramma noir. L’insolito dittico, di rara esecuzione, ha accostato Ponchielli e Puccini in una proposta di qualità.
Il Teatro Filarmonico è il luogo dove Fondazione Arena di Verona osa, e osa bene. Nella stagione invernale infatti, oltre a opere di ampia notorietà, i palati fini hanno la possibilità di assistere a titoli scarsamente o quasi mai rappresentati. Il tabarro di Giacomo Puccini si è saputo ritagliare negli anni una sia pur parca frequenza rappresentativa. In questa sede ha completato il Trittico pucciniano, i cui altri due titoli abbiamo visto negli anni precedenti, sempre in abbinamenti stimolanti e in produzioni di qualità (ma che bello sarebbe poter assistere all’intero Trittico in un’unica sera, come voleva il compositore lucchese).
È invece assai raro, anzi si è trattato di un’occasione pressoché unica poter ascoltare Il parlatore eterno di Amilcare Ponchielli. Lo “scherzo comico in un atto” non era mai stato inscenato prima d’ora da una fondazione lirico sinfonica. Del titolo è tuttora inedita la partitura orchestrale ed è stata pubblicata da Ricordi solo la versione canto/pianoforte. L’edizione eseguita a Verona è stata curata dal musicologo Angelo Rusconi sull’autografo di Ponchielli conservato nell’Archivio Storico Ricordi.
Il dittico veronese è approdato per la prima volta davanti al pubblico dopo che era stato programmato nella stagione 2021, quando era stato eseguito a porte chiuse durante il lockdown, e trasmesso sulla web tv e sui social areniani. È stato ora riproposto variando i cast.
Puccini (1858 – 1924) quando studiava al conservatorio di Milano era allievo di Ponchielli (1834 – 1886) ma in questo caso il balzo stilistico tra loro è ben più che di una generazione. Infatti, mentre Ponchielli nel Parlatore ha strizzato l’occhio al passato, all’intermezzo buffo del Settecento, traendo ispirazione da Rossini e da Donizetti, invece Puccini nel Tabarro, la più verista fra le sue opere, era già proiettato verso il futuro, verso uno stile di incisiva asciuttezza sviluppata in un’attenta orchestrazione, dove la rinuncia alla melodia è stata compensata dall’intensità drammatica.
A far da collante ai due titoli, valorizzando le rispettive caratteristiche autorali, il direttore Gianna Fratta sul podio di Orchestra e Coro dell’Arena di Verona, quest’ultimo preparato da Roberto Gabbiani. Nello “scherzo” di Ponchielli una lettura brillante, alla ricerca delle preziosità del dettato, che Fratta ha cesellato con dinamiche tarate con gusto. Cambio di registro, ovviamente, per il dramma di Puccini in cui hanno prevalso le tinte scure, in cui la cupezza è stata da Fratta convogliata in un lirismo intenso che ha saputo creare empatia col pubblico.
Il parlatore eterno è stato affidato al regista Stefano Trespidi che ha curato una recitazione vivace, briosa e soprattutto garbata, inserendo i personaggi e le numerose controscene in un impianto visivo piacevolmente snello (scene di Filippo Tonon, luci di Paolo Mazzon). Sul muro di mattoni candidi erano fissate alcune lettere metalliche, in tutto analoghe alle moderne installazioni artistiche, riportanti la data della prima esecuzione dell’opera: Lecco, 18.X.1873. Periodo richiamato anche nei costumi (presumibilmente di Silvia Bonetti, nome assente nel libretto di sala) che costituivano l’unico elemento di colore. Sotto uno spiovente del muro affacciavano le porte delle camere di una dimora borghese. Molto gradevole nella sua ricercata semplicità, la scena in cui la parete si è aperta in una specie di casa a ringhiera dalle cui finestre si sono affacciati i coristi, i quali hanno preso posto anche nei palchi di barcaccia.
Il parlatore eterno narra per l’appunto di un petulante giovane logorroico, che chiacchiera incessantemente zittendo quanti cerchino di inserirsi nella conversazione. Un’opera quindi che si risolve di fatto in un monologo ininterrotto di circa mezz’ora, dove gli altri personaggi hanno ruoli di rilievo attoriale ma pochissime battute da cantare. Scriveva il librettista Ghislanzoni: «Ci vuole un baritono che abbia voce, voce, voce e molta scioltezza di scilinguagnolo». Un autentico mattatore si è dimostrato Biagio Pizzuti, interprete di prim’ordine sia nel repertorio serio che in questo buffo. Nei panni del giovane Lelio Cinguetta (un destino nel nome) ha svolto una recita eccellente sotto ogni profilo. Bel timbro, disinvoltura nel sillabato veloce che ha lasciato trapelare lo studio sulla parola, musicalità nelle aperture melodiche, eleganza priva di forzature nell’indulgere ai risvolti esilaranti, non ultima la presenza scenica catalizzatrice e sprizzante simpatia.
Ultra attivo scenicamente ma, come si diceva “zittito” dal ciarliero protagonista, il resto del cast: l’amata Susetta di Grazia Montanari; i genitori di lei, il dottor Nespola di Maurizio Pantò e Aspasia di Francesca Cucuzza; Sandrina di Sonia Bianchetti; Egidio di Salvatore Schiano Di Cola;il Caporale dei gendarmi di Francesco Azzolini.
Il tabarro, atto unico di Puccini su libretto di Adami, è la storia di un amore che forse non c’è mai stato, di un matrimonio naufragato che sfocia nell’omicidio del rivale per mano del marito tradito, che poi celerà il corpo della vittima sotto un mantello, un tabarro appunto.
L’opera è stata affidata alla sensibilità estetica di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, duo registico affiatato (con scene di Leila Fteita e costumi di Silvia Bonetti). Pochi elementi impostati al realismo e con una strizzata d’occhio al cinema: la baracca sulla chiatta ancorata sulle rive della Senna (fiume che Puccini intendeva essere il protagonista del dramma), nel degrado dei bassifondi parigini; poi qualche cassa, un lampione a rischiarare il passaggio, un pontile a dare una illusoria via di fuga ai protagonisti e sul quale è sceso, lentissimo, il tramonto (luci di Paolo Mazzon). Una suggestiva proiezione, con tanto di uccellini svolazzanti, avvenuta in tempo reale, ossia durante l’ora scarsa di durata dell’atto unico, con il sole che da brillante si è arrossato, infuocato, si è striato di viola e infine si è spento. Una luce che a poco a poco è stata inghiottita dalle tenebre, come l’amore tra il proprietario del barcone Michele e la moglie Giorgetta, infatuata di Luigi.
Michele aveva la pastosità vocale e il timbro denso e intrigante, cinto abilmente di screziature noir, di Gevorg Hakobyan, che ha mostrato una efficace evoluzione del personaggio. Prima di restare accecato dal raptus omicida, Michele / Hakobyan è passato dai sentimenti di gelosia alla rabbia incontrollata, rimanendo schiacciato della crudeltà di una vita spietata, fatta di stenti e di dolore.
Giorgetta, il soprano Alessandra Di Giorgio dalla vocalità appropriatamente sinuosa, era una giovane donna arresa. Per lei la speranza di poter fuggire da quel barcone è restata inafferrabile come un miraggio. Nemmeno gli incontri clandestini con Luigi sono bastati a ridarle il sorriso, a farle davvero battere il cuore.
Timbro luminoso e forte dose di passionalità per Samuele Simoncini, dalla voce ben curata così come la presenza scenica nel delineare con incisività drammatica l’amante Luigi.
Di notevole caratura la prova di Rossana Rinaldi, la Frugola. Davide Procaccini e Saverio Fiore erano il Talpa e il Tinca, entrambi puntuali e corretti. Inoltre le voci di Matteo Macchioni, Grazia Montanari, Dario Righetti a dar vita alle figure che affollavano il pontile.
La stagione invernale al Filarmonico per il 2023 si chiuderà tornando al repertorio arcinoto, con Un ballo in maschera dal 17 al 23 dicembre, in attesa della programmazione del nuovo anno (vedi notizia DeArtes qui). Tra gli altri titoli, nel 2024 sarà rappresentata La rondine, che andrà a chiudere il ciclo dell’integrale pucciniano nell’anno del centenario del maestro lucchese.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 22 novembre 2023
Foto Ennevi