Teatro Filarmonico di Verona: un cast di prima grandezza e un tuffo nella storia con l’allestimento datato 1913 del Regio di Parma.
Un solaio, un angolo buio, un baule polveroso e all’interno un vecchio scenario ripiegato. Mani premurose lo srotolano e appare la scritta impressa sul retro: Un ballo in maschera. I fondali e le quinte di pregiata e fragilissima carta dipinta cento anni fa da Giuseppe Carmignani presentavano strappi e distacchi di colore che, ove possibile, sono poi stati amorevolmente reintegrati.
Durante il Preludio sono state proiettate le immagini del ritrovamento fortuito degli storici materiali avvenuto qualche anno fa al Teatro Regio di Parma cui seguì un certosino lavoro di restauro conservativo, realizzato da uno staff di esperti e curato da Rinaldo Rinaldi in accordo con la Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza. Restauro in seguito sfociato in uno spettacolo coproduzione fra Regio di Parma e Auditorium di Tenerife, che abbiamo già avuto modo di recensire nel 2019. Nel gennaio di quell’anno, su queste stesse colonne avevamo scritto: «Il Teatro Regio di Parma, “tour operator” per esploratori del tempo, ha organizzato un viaggio nella storia del melodramma, affascinante e carico di suggestioni».
È pertanto stata una emozione da batticuore vedere quello stesso allestimento rivivere di nuovo a Verona, riscuotere nuovamente apprezzamenti e applausi, affascinare e perpetuare il suo carico di storia. Confermando, ancora una volta, che nel terzo millennio regie innovative e tradizionali convivono splendidamente nei cartelloni teatrali, alternandosi sui palcoscenici pacificamente: un insegnamento universale di cui si dovrebbe fare tesoro.
Programmato a ridosso delle festività natalizie (ultima recita l’antivigilia) questo è stato il titolo di punta della stagione invernale 2023 della Fondazione Arena di Verona al Teatro Filarmonico. La proposta ha registrato il sold out alla prima recita e analoghi pienoni nelle repliche. Tante, le ragioni del successo, oltre al cast di primo livello. Innanzitutto la concomitanza storica: Carmignani dipinse i fondali nello stesso anno in cui l’Arena di Verona fu per la prima volta adibita a teatro d’opera (e si è capito tangibilmente quanto, per i mezzi tecnici di allora, fosse rivoluzionaria la sfida di convertire a teatro uno spazio non deputato). Inoltre, erano vent’anni che le note di questo capolavoro di Giuseppe Verdi non risuonavano al Filarmonico. A dirigere nel 2002 era stato Julian Kovatchev, scomparso prematuramente in Corea poche settimane or sono e al quale è stata dedicata la prima recita veronese. Non ultimo, l’iniziativa è risultata istruttiva per i tanti giovani che sempre affollano il Filarmonico e che hanno avuto modo di vedere l’opera così come fu ideata. Se per gli spettatori esperti è spesso macchinoso cercare di decodificare talune astruse regie contemporanee, è ancora più arduo farlo per chi non conosca a menadito il libretto. Qui si è potuto apprezzare il vero autentico Verdi, declinato nello stile e nel gusto di poco successivi al suo tempo.
Per essere precisi, quando Giuseppe Carmignani dipinse queste scenografie, andate in scena a Parma il 14 settembre 1913 per celebrare il primo centenario verdiano, Un ballo in maschera aveva già cinquantaquattro anni. Lo scenografo innovò, si discostò leggermente dalle annotazioni sceniche apposte da Verdi e impostò il disegno delle architetture ad angolo, imprimendovi una magnifica fuga prospettica e una profondità tridimensionale che sono state valorizzate dalle luci di Andrea Borrelli, calde e pressoché fisse, con verosimiglianza storica.
Il librettista Antonio Somma ha attinto come fonte a Eugène Scribe, che per Daniel Auber aveva scritto Gustave III, ou Le Bal masqué. L’opera infatti nelle intenzioni originarie narrava di un reale fatto di cronaca: l’attentato, durante una festa in costume, a Re Gustavo III di Svezia, che morì dopo pochi giorni dal ferimento. Come spesso accaduto nella storia del melodramma, il progetto iniziale incappò nelle maglie della censura e la vicenda fu trasferita in America, a Boston nel 1600, allora colonia inglese, tra intrighi politici, congiure di palazzo, intrecci amorosi e magiche profezie. Il governatore Riccardo Conte di Warwick viene ucciso dal suo segretario, il creolo Renato, erroneamente convinto che l’amore tra egli e la moglie sia sfociato in tradimento.
Coadiuvata da Leila Fteita per il coordinamento dello spazio e dei pochi arredi scenici, rivestiti di “carta spolvero” per adeguarsi all’impianto scenografico, la regista Marina Bianchi, motore di questo progetto fin dalla sua nascita, si è sagacemente tarata sulla presenza, tanto suggestiva quanto ingombrante, dei fondali storici. La sua regia ha trasudato «amore per la memoria» come ebbe lei stessa ad affermare. Fedeltà verdiana anche sotto il punto di vista interpretativo, con una recitazione intelligentemente classica, sia pure snellita e spurgata dagli eccessi enfatici che una volta erano in auge. Consoni a questa impostazione i costumi di Lorena Marin di seicentesca eleganza, con un tocco tribale nell’antro della fattucchiera.
Sul podio dell’Orchestra di Fondazione Arena è salito Francesco Ivan Ciampa. Tra generosità di volumi, slanci autenticamente appassionati e aperture di gioiosa leggerezza come quelle dedicate al paggio Oscar; tra atmosfere cinte di mistero della maga Ulrica, le luci torbide delle macchinazioni complottistiche, fino ai respiri di un amore onesto per quanto non sereno, Ciampa ha contribuito in modo sostanziale alla delineazione psicologica dei personaggi, con attenzione al dettaglio chiaroscurale musicale e scrupoloso nel rispettare l’architettura d’insieme. Grazie a Ciampa, l’indole e la componente emotiva dei protagonisti è scaturita principalmente dalle note di Verdi, come sempre dovrebbe accadere ma purtroppo si verifica raramente.
Il cast ha schierato un pool di voci di prima grandezza. Il governatore Riccardo, innamorato della moglie del suo segretario ma integerrimo nel rispettarne l’onestà, era il tenore Luciano Ganci, dall’emissione morbida e dai colori vividi e rilucenti. L’estrema cura del fraseggio è sfociata in acuti ottimamente poggiati e ben proiettati e soprattutto privi di qualsivoglia enfasi, in una linea di canto di gusto squisito.
Il soprano uruguaiano Maria Josè Siri, tra palpiti del cuore espressi o repressi, ha delineato con sensibilità una Amelia d’intenso lirismo, alternando acuti solidi a passaggi pieni di sentimento. A onor di cronaca, a conclusione della seconda recita, tra gli applausi si è fatta strada una buata, inspiegabile e ingiustificata a fronte di una prova ottima; forse, si può solo supporre, perché in altre occasioni il soprano riesce a superare anche se stessa.
Apprezzamenti non solo campanilistici per il baritono Simone Piazzola dalla voce rigogliosa, dalla linea di canto nobile, dall’emissione tornita e fluida, dall’interpretazione emotivamente partecipata di Renato, legittimo sposo di Amelia. Prova sublime per Enkeleda Kamani nel ruolo en travesti del paggio Oscar, frizzante, fresca e tornita nelle colorature, agile nell’affrontare i molti virtuosismi superandoli con esiti ineccepibili.
Ulrica era il mezzosoprano russo Maria Ermolaieva (a sostituire l’indisposta Anna Maria Chiuri) il cui timbro scuro e cupo ha contribuito a creare un’aura di mistero attorno alla maga. I congiurati Samuel e Tom erano i valenti bassi Romano Dal Zovo e Nicolò Donini. Fabio Previati ha svettato come marinaio Silvano e Salvatore Schiano di Cola ha rivestito il doppio ruolo di giudice e servo di Amelia. Il Coro areniano preparato da Roberto Gabbiani ha fornito una prova considerevole per incisività, precisione e intonazione.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 20 dicembre 2023
Foto Ennevi