Stratosferico Francesco Meli nell’opera di Donizetti in scena al Teatro Regio di Parma, con ‘I Burattini dei Ferrari’.

Un sogno onirico-dark. Attorno a Nemorino è ruotata l’idea registica di Daniele Menghini, e il mondo musicato da Donizetti è scaturito dal personaggio, letteralmente. Il regista infatti ha immaginato tutto come frutto dell’immaginazione e della manualità di Nemorino, ondeggiando tra fantasticheria e allucinazione. Il nuovo affascinante allestimento de L’elisir d’amore ha debuttato al Teatro Regio di Parma, in coproduzione con il Regio di Torino.

Il “melodramma giocoso” (che il librettista Romani “prese”, stampando le proprie scuse, da quello che Scribe aveva confezionato per Auber) ha qui assunto altri colori, virando decisamente verso lo scuro, verso il malinconico, sentimento presente anche in Donizetti, complici le luci notturne e seppiate di Gianni Bertoli. Le scene essenziali di Davide Signorini sono risultate registicamente sovraffollate però non caotiche, rutilanti di magnifiche controscene: i rimandi e i significati, espliciti o simbolici, si sono rincorsi più rapidi di quanto l’occhio dello spettatore potesse cogliere, in un caos controllato dove tutti gli ingranaggi hanno girato alla perfezione. I personaggi, splendidamente abbigliati nei costumi fantasiosi di Nika Campisi, si sono mischiati a uno stuolo di burattini, che hanno interagito con gli umani, spesso come alter ego.

Bargnocla (alter ego di Dulcamara/Mangiafuoco che infatti sfoggiava un vistoso bernoccolo in fronte) e i suoi compagni fatti di legno hanno rivestito un ruolo co-protagonistico a tutti gli effetti. Per la prima volta in un’opera lirica, incessantemente impegnati dalla prima nota all’ultima assieme a mimi/burattini, si sono mostrati in tutta la loro bellezza I Burattini dei Ferrari insieme a Daniela e Giordano Ferrari, eredi di una prestigiosa “ditta” inaugurata alla fine dell’Ottocento dal capostipite Italo (da visitare assolutamente il Museo, a due passi dal Teatro). Tra i 33 burattini storici della collezione di famiglia, in scena anche due marionette di fine ‘700. Ed è superfluo sottolineare quanto la preziosità di questi muti interpreti sia risultata sostanziale per la qualità dell’allestimento.

Nemorino, in carne e ossa, non era il sempliciotto, lo sprovveduto che solitamente siamo abituati a vedere nell’opera donizettiana, bensì un timido, un giovane sensibile ancora alla ricerca di se stesso. Innamorato di Adina, che lo ha rifiutato sdegnosa, ha creduto ingenuamente al ciarlatano Dulcamara e al suo magico filtro che invece era solo un robusto vinello. Quindi, la speranza è sfociata nella disillusione, in un mondo nel quale è difficile inserirsi. A salvarlo dalla situazione di disagio, il suo spirito sognatore.

Si è intrufolato in un teatro (ha fatto il suo ingresso dal fondo della platea del Regio durante il preludio), si è appisolato nella falegnameria dietro le quinte e si è ritrovato in un mondo immaginato, forse agognato, dove come un moderno Geppetto (perché no? anche come lo Spalanzani fabbricatore di automi ne Les contes d’Hoffmann) ha intagliato dei burattini che nella sua mente hanno preso il posto delle persone. Ossia ha plasmato con le proprie mani la sua vita. Poi la metamorfosi: Nemorino da Geppetto è diventato Pinocchio, che verrà poi smembrato dopo essere stato roso dal tarlo di una stupenda, inquietante figura antennuta a metà tra il Grillo parlante e la Fata turchina. L’uomo è diventato un burattino di legno, quello stesso che sperava di diventare uomo. Nemorino si è così ritrovato sovrastato da una gigantesca mano che ne ha mosso i fili, sotto una straniante nevicata di trucioli. Un cuore schietto e sincero trovatosi in un mondo di maschere ed egli stesso maschera.

Quindi Nemorino è Geppetto o è Pinocchio? È il creatore della propria vita o è solo uno dei tanti pupazzi che popolano il teatro del mondo? Questo interrogativo insoluto, lo stesso che assale molti odierni adolescenti (e non), racchiude il significato e la profondità del disegno registico. Assolutamente da rivedere.

La regia di Menghini non sarebbe riuscita così perfettamente senza un Nemorino di prim’ordine. Francesco Meli era in stato di grazia ancor più del solito. Sublime. L’espressività attoriale era curata nei minimi dettagli, nonostante il tenore fosse stato chiamato al Regio all’ultimo momento, e l’ha mantenuta incessantemente anche quando si trovava in secondo piano, in simbiosi col personaggio. Meli ha compiuto un capolavoro anche dal punto di vista vocale, andando oltre la prevedibilità della sua eccellenza. Si può elevare a modello “Una furtiva lagrima” giostrata su filati infiniti e volumi soffusi, sussurrati eppure sempre ben poggiati, e su lunghe pause cariche di sottintesi, di emozioni, di cuore: poesia allo stato puro. Un bis concesso dopo interminabili applausi, in una prestazione interamente giostrata a livelli stratosferici, da adottare come metro di paragone futuro per questo ruolo.

Altro fuoriclasse Roberto de Candia, Dulcamara di razza, dalla voce di basso tonante ottimamente padroneggiata e altrettanto egregiamente fraseggiata. Mentre la linea stilistica del canto è stata sostenuta con eleganza, il personaggio è stato delineato, come dovuto, a grana grossa: un imbroglione dalla presa magnetica sui polli da spennare, un affabulatore capace di sprigionare un proprio fascino.

Il soprano armeno Nina Minasyan era un’Adina caratterialmente determinata, aggraziata nel canto, soprattutto negli squilli raggiunti con facilità. Il baritono Lodovico Filippo Ravizza era il borioso sergente Belcore, dalla bella voce scura e pastosa, gestita al meglio. Apprezzata la Giannetta di Yulia Tkachenko. Ben preparato il Coro del Teatro Regio di Parma, sotto la guida di Martino Faggiani.

Sesto Quatrini sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna è intervenuto con mano decisa sulle agogiche, prendendosi, e ben sfruttando, le libertà di approccio alla partitura che aveva preannunciate nelle note pubblicate nel libretto di sala. In sinergia con il regista, ha accentuato la doppia anima dell’Elisir: brio e malinconia. Aver mantenuto dall’inizio alla fine questo dualismo donizettiano soppesandone attentamente i distinti elementi, ora mettendoli in contrasto, ora sovrapponendoli, infine innestandovi la propria visione personale e dando all’insieme una notevole linearità, è stata la chiave di una direzione di valore.  

La rappresentazione cui abbiamo assistito è stata trasmessa in diretta su operastreaming.com, il portale gratuito della Regione Emilia-Romagna sviluppato in collaborazione con EDUNOVA – Università di Modena e Reggio Emilia. L’opera resterà disponibile nella piattaforma per i sei mesi successivi alla messa in oda, con sottotitoli in italiano e inglese e contenuti extra riguardanti la città, il teatro e il dietro le quinte.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 22 marzo 2024
Foto di Roberto Ricci

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