Di Maria Luisa Abate. Parma: al Teatro Regio ha brillato la stella di Salsi; entusiasmo per Grimaldi e Jadge. Appassionata direzione di Oren. D’immutabile fascino la regia di Franconi Lee.
La figurazione del potere abusato, distorto, che replica le proprie deformazioni in un gioco di rimandi falsante ogni prospettiva, anche architettonica. Tosca dalle tinte noir, quella firmata alla regia da Joseph Franconi Lee, ispiratosi a un’idea di Alberto Fassini del 1999. Un allestimento fortunato che circuita da molti anni e che già avevamo visto anche al Teatro Regio di Parma, dove ha fatto ritorno riscuotendo rinnovati consensi per l’immediatezza dell’approccio visivo, a iniziare dai costumi tradizionali e delle scene (entrambi di William Orlandi) il cui impatto drammatico è stato amplificato dai decisi effetti di luce (di Andrea Borrelli).
Un allestimento figlio di quella Scuola che vuole la regia innestarsi sulla musica e sul libretto con rispetto. Il primo atto si è aperto all’interno della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, di cui si è vista una grande scalinata sulla quale era poggiata, come piano di calpestìo, la tela cui stava lavorando il pittore Mario Cavaradossi. Quindi non solo arte come causa scatenante la gelosia di Floria Tosca, ma anche mezzo registico per insinuare da subito il disprezzo per tutto e tutti dimostrato dallo spietato barone Scarpia. La cupola, sbilenca e tenebrosa, si è illuminata in controluce sulla processione del Te Deum, avvenuta sulla parte alta della scena, come a voler separare il divino e il terreno.
Nell’atto successivo a Palazzo Farnese, il barone ha consumato la sua “povera cena” presto interrotta su una tavola ingombra di croci, posta sotto il quadro della crocifissione di san Pietro come raffigurato da Guido Reni, ma qui privato dei colori, in un bianco e nero seppiato che ha confermato la lividezza del clima di terrore instaurato dal capo della Polizia papalina. Nella versione registica in passato applaudita in questo e in altri teatri, Cavaradossi moriva nella stessa posizione dipinta da Guido Reni, ossia a testa in giù, con un atto ricco di significati simbolici. In questa ripresa, invece, il tenore dopo la fucilazione è caduto a capo in alto, sotto al canonico sguardo della statua di Castel Sant’Angelo. Così come, purtroppo, si è persa per strada la bella immagine di Tosca che, nel lasciare a terra il cadavere di Scarpia da lei appena pugnalato a morte, in passato usciva dalla stanza trascinandosi dietro la sua stola rossa, come fosse una scia di sangue. Particolari davvero di poco conto se si considera che questa produzione è stata contrassegnata da ripetute indisposizioni dei protagonisti, con conseguenti cambi di cast e restringimento delle prove. Nonostante tali oggettive difficoltà, gli esiti scenici e musicali sono stati qualitativamente ottimi, con punte di autentica eccellenza.
Entusiasticamente applaudita dal loggione del Regio Parma notoriamente esigente, Erika Grimaldi, chiamata all’ultimo minuto a sostituire l’indisposta titolare del ruolo protagonistico. Splendidamente a posto nella voce e intensamente espressiva nella recitazione, il soprano, nell’uno e nell’altro aspetto, ha saputo essere tanto dolce quanto decisa, tanto morbida quanto volitiva. Un’interpretazione ricca di turbolenze emotive riverberate nel fraseggio assai curato, nella voce dolcissima nei pianissimo e incisiva negli acuti, a delineare la personalità sfaccettata di Tosca, fragile eppure capace di trovare dentro sé una forza inaspettata. Un momento magico Erika Grimaldi lo ha regalato nel “Vissi d’arte” sospeso nell’aria, giostrato su filati sottili ottimamente sostenuti, su chiaroscuri emozionali, su una classe interpretativa che ha scatenato richieste di bis a furor di popolo.
Ma questa, a modesto parere di chi scrive, resterà nella memoria come la Tosca di Luca Salsi. Il baritono, meritatamente osannato sui palcoscenici più prestigiosi, che oltretutto calca con una frequenza davvero impegnativa, ha abituato all’eccellenza: per lui il valore è una costante, tuttavia scevra dalla noia della prevedibilità. Salsi, che qui ha giocato in casa, è riuscito a stupire anche il pubblico che meglio ne conosce le doti, superando se stesso, alzando l’asticella qualitativa dall’eccellenza a un grado superlativo. Il suo barone Scarpia è stato pressoché perfetto. Non solo nella voce, la cui nota solidità si è fatta studiatamente tagliente ma mai dura, d’una pastosità venata da bagliori di lama affilata, forte di un fraseggio graffiante come gli artigli della belva Scarpia pronta ad attaccare. La varietà di accenti, dinamici e coloristici, ha reso palesi le mille sfaccettature drammatiche incastonate in ogni singola parola. Dal punto di vista attoriale Salsi ha compiuto un capolavoro scavando a fondo nella psicologica del personaggio, valorizzandone ogni sfumatura caratteriale, in una recitazione da Oscar farcita da infiniti dettagli a iniziare da quando, durante la tortura a Cavaradossi, egli si è seduto a sfogliare le pagine di un libro divertendosi alla lettura. Il suo barone, dai modi nobili consoni all’alto lignaggio e imperiosi di chi è abituato a comandare col pugno di ferro, a spadroneggiare con violenza, ha sprizzato da tutti i pori totale disprezzo per le persone e al contempo ha emanato un fascino noir magnetico. “Pronto a ghermire” le sue prede (come canterà Tosca) fossero esse indistintamente avversari politici, fidi scagnozzi oppure la donna di turno, da conquistare non per semplice desiderio fisico ma per puro esercizio di potere. Ripetiamo: superlativo.
Brian Jadge, al debutto a Parma, dopo essere stato costretto a dare forfait nelle prime due recite, ha ripreso in itinere il ruolo di Mario Cavaradossi presentandosi in buona forma e conquistando il pubblico con il timbro sincero, svettante e generoso in acuto. Buona, con qualche particolare migliorabile, la pronuncia italiana del tenore newyorkese, a fronte di una dizione lodevolmente chiara. I davvero lievi strascichi dell’indisposizione si sono percepiti solo nella mancanza di rilassatezza, sfociata in un certo distacco sentimentale nei confronti dell’amata, mentre appassionati sono stati gli slanci patriottici.
Di valore l’Angelotti di Luciano Leoni, voce di tangibile potenza. Roberto Abbondanza ha vestito con veritiera credibilità i panni del Sagrestano. Completavano degnamente il cast Marcello Nardis, Spoletta, Eugenio Maria Degiacomi, Sciarrone, Lucio Di Giovanni, Carceriere. Di pregio la fresca voce di Sofia Bucaram che ha impersonato il pastorello da dietro le quinte.
La direzione è stata affidata alla bacchetta di Daniel Oren, sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini in gran spolvero, del Coro del Teatro Regio di Parma egregiamente preparato da Martino Faggiani, e del Coro di voci bianche, intonato e puntuale, istruito da Massimo Fiocchi Malaspina. Daniel Oren è noto per il suo approccio viscerale e schietto, per l’anima appassionata con cui gestisce le dinamiche decise, l’impulsività e l’onestà del sentimento. Tanto che, nel suo risaputo lasciarsi andare a udibili incitamenti all’orchestra, sono risuonate nitide nella sala le parole di soddisfazione per il bis del soprano. Bilanciando fluidamente toni impetuosi e drammatici a delicate aperture liriche, con una maestria che lo rende uno dei più sensibili direttori oggi in circolazione, Oren ha denotato sincerità di cuore: non ha diretto Puccini, ma lo ha vissuto come parte di sé.
La recita del 31 maggio è stata trasmessa su operavision.eu, la piattaforma streaming gratuita di Opera Europa supportata dal programma dell’Unione Europea Creative Europe, e resterà disponibile per i 6 mesi successivi dalla messa in onda.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma il 23 maggio 2024
Foto Roberto Ricci
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