Di Maria Luisa Abate. Mantova: con 50mila presenze si è concluso il Chamber Music Festival, che porta la musica d’arte nei luoghi d’arte.
C’era un vecchio Carosello televisivo in cui lo slogan del prodotto reclamizzato recitava: “vanta molti tentativi di imitazione”. Così è Trame Sonore, che dodici anni fa sperimentò la formula della musica d’arte – prevalentemente classica e cameristica, con aperture a ogni genere ed epoca – eseguita nei luoghi d’arte; formula copiata da tante rassegne che, pur sorte successivamente, si arrogano addirittura la paternità dell’idea.
La musica da camera nacque per essere eseguita nei salotti. Chi ha intuito che tale antica pratica potesse essere riproposta con successo in epoca contemporanea, riaprendo alla musica le sale di palazzi nobiliari grandi e piccoli, è stato Carlo Fabiano nell’ambito di quella che nel tempo si è strutturata come Oficina OCM, supportato da un amico anch’egli sognatore: Alexander Lonquich. Una paternità di cui andare fieri e orgogliosi. Non si tratta solo di bellezze architettoniche e di qualità artistica, che pure sono elementi imprescindibili; non si tratta di un’idea, vincente e imitata. Si tratta di un luogo dove la musica vive.
A Mantova si crea una magia unica e irripetibile, che fa cadere muri e barriere di ogni tipo. Chi è venuto una volta non può fare a meno di tornare l’anno dopo e quello dopo ancora, irretito dall’atmosfera ineguagliabile.
Trame Sonore è tornato, per cinque giorni a partire dal 29 maggio, con le sue quattromila ore di musica ininterrotte da mattina a sera, senza soffrire troppo del meteo inclemente, grazie a uno staff agile tanto nell’organizzazione quanto nella ri-modulazione anti pioggia. La rassegna 2024 si è chiusa domenica 2 giugno registrando 50.000 presenze di pubblico, di cui un 20% da oltre confine e, aggiungiamo noi dalla percezione avuta sul campo, con una lusinghiera percentuale di pubblico da ogni parte d’Italia.
UN NON-FESTIVAL UNICO
Il Chamber Music Festival non ama essere chiamato festival. L’ufficio stampa lo ha definito “la Woodstock della musica d’arte”. Paragone azzeccato, per quanto forse più calzante ai primi anni in cui la rassegna era nata, in forma più “scapigliata” dell’attuale. Anche se il cartellone ha in seguito trovato un maggiore “ordine”, resta sempre il clima informale da full immersion nella musica che, caso unico, è vissuta con eguale partecipazione dal pubblico e dai musicisti stessi.
«Cosa è unico oggi?» si sono chiesti i compositori Nicola Sani e Alessandro Solbiati, sollecitati dal giornalista e divulgatore Guido Barbieri, durante uno degli incontri di “Un caffè con…”, sotto i tigli secolari del giardino di Palazzo Castiglioni. L’argomento era collegato a due concerti che si sarebbero tenuti di lì a poco, tuttavia la conversazione ha proceduto per concetti generali. «Un quadro lo si percepisce nell’atto del guardare, che dura quanto lo si vuole far durare. Un libro lo si legge e poi si può chiuderlo, poggiarlo sul comodino e riprenderlo in un altro momento» ha spiegato Solbiati. «La musica no. Basta aprire le orecchie, aprire il cuore e avere tempo. È la musica che decide il tempo della fruizione».
A tale concetto ci adeguiamo, ripercorrendo in queste righe la nostra personale trama, per la quale eleggiamo a chiave di lettura due eventi musicali tra i tanti di eccelsa qualità che costellano la cinque-giorni. Anzi, prendiamo come esempio alcune foto scattate fortuitamente extra concerti, elevandole a emblema dell’intera rassegna. Perché sarebbe scorretto parlare di musica invece che descrivere come la musica sia stata vissuta.
IL PRIMO CONCERTO SIMBOLO
Ci troviamo in via Accademia, leggermente in anticipo sull’orario di inizio del concerto fissato al Teatro Bibiena. Davanti a noi un signore con zaino in spalla e sguardo da turista sotto gli occhiali da sole. Però ha le scarpe insolitamente eleganti e lucide per essere uno dei tanti impegnati nel trekking musicale. Ci permettiamo di chiamarlo: «Excuse me, Maestro Padmore…». Il tenore britannico tra i più famosi al mondo si gira con un sorriso smagliante. Imbracciamo lesti la nostra macchinetta fotografica bonsai e accenniamo a mostrare il pass-press rendendoci conto che è superfluo. Gentilissimo, Mark Padmore si concede spontaneamente allo scatto. Lo salutiamo, riferendoci al suo precedente concerto, con un «bravissimo, chapeau» che denota la nostra imbarazzante inabilità da poliglotta. Un ultimo sorriso e imbocchiamo i diversi ingressi a teatro. Questi incontri a Trame sono continui, con chiunque e ovunque: per strada, al bar, in gelateria, nei negozi… A Mantova la differenza tra esecutore e ascoltatore si azzera.
Mark Padrmore ha donato momenti memorabili accompagnato da Stefano Rossi al corno e da una delle tante formazione dell’Orchestra da Camera di Mantova, diretta da Hossein Pishkar. Oltre a un brano contemporaneo di Colasanti, abbiamo ascoltato la meravigliosa “Serenata per tenore, corno e archi” op. 31 di Britten. Un artista stratosferico attorniato da colleghi eccellenti. La norma, a Trame.
Così come a Mantova è normale che un pianista tra i più famosi e quotati al mondo si presti a fare da accompagnatore di extralusso. È accaduto nel secondo concerto tenuto da Padmore, affiancato da Alexander Lonquich al pianoforte nell’incontro dedicato a una serie di lieder di Schubert dal titolo Schwanengesang D 957. Non è mai corretto stilare classifiche nette, ma ci sentiamo di affermare che Mark Padmore sia oggi il numero uno al mondo nel repertorio liederistico. Prima dell’inizio, con invito controcorrente, il pubblico è stato sollecitato a non spegnere i telefoni ma a usarli consapevolmente e avvalersi delle possibilità che la tecnologia offre per approcciarsi al meglio alla musica. Infatti entrando nella banca dati dell’Orchestra virtuale del Flaminio si sono potuti consultare i testi originali in tedesco (che Padmore ha eseguito a memoria, senza leggio) con a fianco la traduzione italiana. In verità, tanta è stata l’espressività del tenore nel dare concretezza pittorica alla descrittività schubertiana, da rendere quasi superfluo leggere le parole. Il suo canto ha reso morbide anche certe asperità della lingua tedesca, si è smorzato in mezze voci per poi ingrandirsi, inspessirsi, farsi potente e nuovamente diluirsi in anse poetiche. Sublime. Da ascoltare trattenendo il fiato.
Non è finita qui. Due palchi più in là del nostro, una bambina usava il velluto della balaustra come una tastiera, simulando di essere lei stessa a suonare, con la mamma che, di spalle, l’aiutava a poggiare i ditini sugli immaginari tasti seguendo i giusti tempi musicali.
Rispondiamo alla domanda dei relatori poc’anzi citata “cosa è unico oggi?” Forse, l’unicità di Trame sta nella pluralità di unicità.
IL SECONDO CONCERTO SIMBOLO
Restando in argomento unicità, a Mantova gli artisti non si sentono in concorrenza, non ci sono gelosie, si tifa l’uno per l’altro con sincerità. È sabato notte, il terzo “ ‘round midnight” alla Rotonda di San Lorenzo. La chiesa risalente al XI secolo è sold-out e tanti sono in speranzosa attesa che si liberi un posto. Il direttore d’orchestra Alessandro Maria Carnelli, in questa occasione spettatore, ha un biglietto in più. Al più lesto a farsi avanti chiede il nome di battesimo regalandogli l’ingresso e un’amichevole conversazione a tu per tu.
Troviamo posto sulla balconata dove, come normale spettatrice, arriva la fuoriclasse del violino Tai Murray, alla quale era stato affidato il concerto di apertura del festival. Ha i leggings, le scarpe da ginnastica, un sorriso smagliante e il cellulare pronto nella mano.
Suona un quintetto d’eccezione: Veriko Tchumburidze e Uiler Moreira violini, Jennifer Stumm e Guilherme Caldas alle viole, Giovanni Gnocchi al violoncello. L’ensemble è affiatato e il suo “motore” romba come quello di una Ferrari nel Quintetto n.2 in sol maggiore op 111 di Brahms. Il pubblico è in visibilio, compresa la celebre violinista che si sporge sul largo davanzale per guardare dall’alto i colleghi, gioisce ripetutamente all’ascolto, “accompagna” l’esecuzione scandendo il tempo con una mano mentre con l’altra registra alcune parti col telefono (lo confessiamo, abbiamo maleducatamente sbirciato: nella schermata di apertura aveva un meraviglioso gattone). Poi applaude, grida bis, è felice come tutto il pubblico di aver ascoltato un concerto ottimo.
La rivalità tra colleghi è cosa di un altro pianeta, sconosciuta in questa rassegna dalle molte unicità. Qui si abbatte quella che, nel teatro di prosa, viene chiamata quarta parete, ossia quel muro immaginario che divide lo spettatore da ciò che viene rappresentato, e crollano le barriere tra artisti. Trame Sonore, sì, ma anche trame emozionali, di amicizie, di condivisione.
CRONACA E RECENSIONI
Per dovere di cronaca, usciamo dalla modalità Woodstock e relazioniamo su alcuni dei 150 concerti in cartellone. Quest’anno siamo stati “forti”, ci siamo imposti di non privilegiare solo le presenze più eclatanti e, resistendo alle tentazioni, abbiamo sfruttato la possibilità di andare alla scoperta di autori poco conosciuti o di interpreti meno noti o ancora di repertori raramente frequentati.
Trame Sonore 2024 si è aperto con una serata a inviti, sotto le lunette raffiguranti musici della Sala degli Specchi in Palazzo Ducale. La reggia dei Gonzaga è il cuore pulsante della rassegna che si espande in tutto il centro storico, dai palazzi pubblici a quelli privati, dalle gallerie alle dimore nobiliari, fino alle piazze.
Ai saluti di rito durante i quali, nella soddisfazione generale, sono state dette ovvietà che era giusto e opportuno ribadire, ci permettiamo di aggiungere che la rassegna non ha solo i pregi della longevità e della validità delle proposte: in questi dodici anni non ha mai accusato momenti di stanca (avendo retto anche durante la pandemia), di calo dell’interesse e meno che meno della qualità, autenticamente stratosferica.
I discorsi istituzionali non potevano che essere accompagnati da un momento suonato, affidato al Trio Vecando che ha eseguito Ravel con spiccata cantabilità e godibilità. Nella Sala degli Specchi siamo tornati più volte nei giorni successivi, ad esempio per riascoltare un brano tra i più gettonati e ricorrenti nelle varie edizioni della rassegna, “La trota”, affidata al Quartetto Klimt allargato a quintetto: gli archi più pianoforte hanno sottolineato il linguaggio armonico innovativo di Schubert, i cambi tonali, le variazioni su uno stesso movimento.
Prima ancora, in questa stessa sala, abbiamo assistito a un appuntamento travolgente, che ha entusiasmato i presenti. La formazione d’archi Quartetto Avetis, con l’aggiunta del pianoforte suonato da Maya Oganyan, ha presentato il Quintetto n.2 op 81 di Dvořák, riuscendo a imprimere alla composizione una gamma coloristica raramente udita con tale vividezza, con tale adrenalinico temperamento. A nostro parere, tra i concerti più coinvolgenti ed entusiasmanti di quest’anno.
Restando entro il perimetro della reggia, in piazza Santa Barbara, il compito di aprire ufficialmente Trame Sonore è spettato a Tai Murray. Abito a fiori e sguardo gioioso, così come gioioso è stato l’approccio allo strumento, il violino, e al compositore, Mozart. Nel concerto n. 5 K 219 “Turkish” l’artista americana è stata accompagnata dall’Orchestra da Camera di Mantova, con Carlo Fabiano violino concertatore. Il salisburghese qui non ha riservato allo strumento solista dei virtuosismi particolarmente impervi, ma piuttosto è sembrato essersi divertito a utilizzarne tutte le potenzialità. Su questa spinta allegra nondimeno estremamente impegnativa si è mossa Tai Murray: il sorriso come stile di vita e anche come stile esecutivo, mantenuto sia nei passaggi incisivi sia nelle pagine mozartiane puramente ornamentali, che la violinista ha letteralmente fatto sbocciare in un tripudio melodico e armonico di colori, ora delicati ora sgargianti, senza mai dimenticare le reminiscenze attinte alla musica popolare, come suggerito dal titolo.
La seconda giornata si è per noi aperta nuovamente nel segno di Amadeus nell’antica dimora nobiliare di Palazzo d’Arco dove ha sede una “enclave” mozartiana. Il Quartetto Kuss, pluripremiata formazione tedesca (i cui componenti sono spesso cambiati) possiede un suono molto preciso e bilanciato tra gli strumenti, prettamente cameristico, come dovuto. Ci sia scusato se torniamo in “modalità Woodstock”, perché la musica va ascoltata non solo con le orecchie. Questo concerto ha avuto, per noi, funzione pacificante. Dalla destra, ovattati e non disturbanti, provenivano i sottofondi della città, un autobus di passaggio, una bicicletta scampanellante. Mentre dal lato opposto, quello le cui finestre affacciano sul giardino del palazzo, si sentivano cinguettare gli uccellini e dopo poco lo scrosciare della pioggia. Nel mezzo, c’eravamo noi in compagnia di Mozart, immersi in una meravigliosa bolla spazio-temporale.
Tra le nostre dolorose rinunce, il concomitante concerto sempre di Mozart eseguito dall’Orchestra da Camera di Mantova con uno specialista di questo repertorio, Andrea Bacchetti al pianoforte. Ci è stato riferito da chi aveva scelto un itinerario diverso dal nostro, essere stato eccellente e particolarmente ispirato, pur se inspiegabilmente emozionato, perennemente alla ricerca di quella perfezione di suono che dà inquietudine, che cagiona tormento artistico.
Un’altra “enclave”, questa volta barocca, era nella Sala dei Fiumi di Palazzo Ducale, affrescata a trompe-l’œil e affacciata sul famoso giardino pensile. Vi siamo andati per la prima volta a seguire l’ “Offerta Musicale” BWV 1079 di Bach, una raccolta formata da ricercari, canoni, una fuga e una “Sonata sopr’il Soggetto reale’ che, come dice il titolo, era ispirata a un tema ideato dal Re Federico II di Prussia. L’Ensemble Diderot ha presentato una lettura precisa e particolarmente fresca, che ha dato specifico risalto alle diverse voci strumentali.
Siamo poi tornati nella Sala dei Fiumi per la prestigiosa collaborazione che ha portato a Mantova solisti e orchestra Monteverdi Festival-Cremona Antiqua con Antonio Greco direttore al cembalo. Dapprima, una Sonata del compositore seicentesco Bertali, poi uno stralcio dal Combattimento di Tancredi e Clorinda in occasione dei 400 anni dalla prima rappresentazione. Una esecuzione inappuntabile, d’eccellenza sotto i profili tecnico e interpretativo, nella quale ha stupito la voce maschile, assai corposa e lontana dalle sonorità controtenorili cui siamo abituati in questo repertorio.
Spostato causa meteo dall’aperto all’accogliente Teatro Bibiena (un applauso a chi ha curato la biglietteria e la riassegnazione dei posti) il concerto serale di giovedì ha visto nuovamente impegnato un Ensemble OCM “rinforzato” da altri musicisti, che tra delicati pianissimo e sfoggio di legati ha proposto l’Ottetto op. 166 D 803 di Schubert, in una visione dolce e rasserenante, evidenziando il temperamento romantico del compositore.
All’insegna della delicatezza e immerso in un’atmosfera poetica preannunciata dalle introduzioni a voce, il “‘round midnight” affidato al Quartetto Indaco, impegnato in Webern e Schumann.
Giovanni Sollima è un amico di lunga data del Festival. Il suo nome, nel mondo, è sinonimo di violoncello. Dapprima si è presentato assieme alla giovanissima talentuosa Clarissa Bevilacqua al violino e a Carlotta Maestrini al pianoforte, la quale ha colpito per l’eccelsa bravura, per il tocco sgranato e limpido. Il trio ha affrontato Beethoven, per concludere con una immancabile brano del violoncellista e compositore. Ma è nei due appuntamenti successivi, uno da solo e l’altro en plein air in Santa Barbara attorniato dall’orchestra, che Sollima è diventato… Sollima. Espansivo, estroverso, sanguigno, sempre studiatamente sopra le righe nelle sue esternazioni. Votato a eccessi che, lo ammettiamo, un tempo non amavamo senonché sono diventati magnificamente autoironici, giocosi, quasi a voler sdrammatizzare una bravura tecnica superlativa che potrebbe annichilire l’ascoltatore.
Sollima ha travolto come un fiume in piena dalle acque rigonfie di passionalità. Ha rimarcato con espressioni del viso i passaggi sofferti e quelli nervosi, quelli lirici o divertenti. Ha finto stupore che proprio lì ci fosse una pausa e ne ha allungato il silenzio, in un caleidoscopio di mimiche facciali frutto della personalità istrionica andata di pari passo con la bravura stratosferica. Con maestria si è lanciato in “cavalcate” a perdifiato sull’archetto che hanno mandato in visibilio il pubblico; dopo di che è rimasto svuotato, perché in quegli sfoggi di virtuosismo ha dato generosamente tutto se stesso, ha sprizzato fuoco e fiamma che consuma. Così è stato nel concerto in cui, violoncello concertatore a capo dell’Orchestra da Camera di Mantova in stato di grazia, Sollima ha tirato fuori tutto il suo inventario, dall’archetto messo tra i denti per suonare il violoncello come una chitarra, allo strumento issato in alto come un vessillo. Un uomo di spettacolo a tutto tondo, perché Sollima è sì un personaggio, e ama farlo, ma è prima di tutto un musicista straordinario, dalla prorompente personalità. Alla Rotonda gli hanno gridato: «Sei da solo e sembri un’orchestra!».
Anche il soprano Gemma Bertagnolli è un’amica di lunga data del festival, e ogni anno porta qualcuna delle meravigliose perle da lei molto amate, attinte a repertori tanto desueti quanto affascinanti e di valore: le sue riscoperte vengono pubblicate da prestigiose Case editrici. Del Canzoniere op. 17 composto da Wolf – Ferrari su versi popolari toscani, il soprano, infiorettando il discorso introduttivo con garbata ironia, ha mostrato volumi editi nei Paesi del Sol levante spiegando che ne aveva letti gli ideogrammi grazie a Google translate. Tra le risate degli astanti, ha spiritosamente descritto le sue prime temerarie ricerche avvenute su un testo in tedesco stampato con caratteri gotici. Un racconto divertente a introdurre un repertorio delizioso. Il Canzoniere consiste in una serie di brevi o brevissime miniatura musicali, a volte della durata di meno di un minuto, che Gemma Bertagnolli ha cantato con gioia contagiosa, in una sorta di recitar cantando di qualità sopraffina. Per lei insistenti entusiastiche richieste di aggiungere altre chicche, mentre fioccavano le ovazioni rivolte al pianista, il grande Antonio Ballista prestatosi a farle da accompagnatore. Giovanni Bietti, giunto a sorpresa nella sala del Palazzo vescovile per introdurre il concerto, grazie alla sua sterminata esperienza come divulgatore è riuscito a motivare l’inserimento di questa proposta nella trama “Puccini: love or hate?”.
Fra le trame alternative non manca mai quella dedicata al jazz. Assai pacato, di matrice classica, quello eseguito in piazza Leon Battista Alberti da JAS – Jazz Acoustic Strings, con Cesare Carretta violino solista e concertatore: uno dei tanti appuntamenti a ingresso gratuito, trasformatosi in un bagno di folla.
Tra i grandi nomi, abbiamo trovato anche quelli di Marco Rizzi al violino, Giovanni Gnocchi al violoncello, Andrea Lucchesini al pianoforte, che si sono uniti assieme in occasione del Trio n.2 op. 87 di Brahms, conquistando gli astanti con un suono omogeneo e pastoso che pure ha lasciato ampio risalto alle tre “voci” degli strumenti.
Mentre l’immenso Alfred Brendel, Guest of honor, teneva la sua affollatissima masterclass nel Palazzo vescovile, nel corso della quale ha dato indicazioni di lettura e interpretazione di un brano beethoveniano al Quartetto Malion, noi siamo stati pervasi nuovamente dallo spirito di Woodstock e ci siamo recati alla galleria Corraini. Qui Maurizio Baglini al pianoforte ha affrontato il tema dell’eroe iniziando da un omaggio a David Bowie, compianto divo rock che il mondo conosce come cantante ma che era sassofonista e diplomato in violoncello, come ha ricordato lo stesso Baglini. Una versione molto tranquilla, in chiave pop, ossia popolare, intendendo la parola come multiculturale, come rispetto per la diversità. In seguito Baglini è passato a una personale lettura della Polonaise di Chopin, la famosa “Eroica”, per poi concludere con una riscrittura di Liszt su Rossini.
Uno dei concerti di “Looking forward” ha visto un pubblico formato per lo più da adolescenti scatenati, che hanno cantato a gran voce happy birthday a una del gruppo. Il bailamme è stato limitato ai soli minuti di attesa prima dell’inizio: cosa c’è di meglio che vedere dei ragazzi entusiasti di trovarsi a un concerto di musica classica? Nel Quartetto “Razumovsky” di Beethoven abbiamo ascoltato – in un ensemble formato dai bravi Lorenzo Rovati e Javier Comesana Barrera violini, Nora Romanoff-Schwarzberg viola, Damiano Scarpa violoncello – una pianista della quale si fa un gran parlare tra gli astri nascenti: Ying Li. Nel suo caso, siamo stati favoriti dalla visione dall’alto di un palco e siamo rimasti affascinati dalle sue dita che letteralmente hanno danzato sulla tastiera, morbidissime, capaci di trovare le appropriate incisività, di dare consistenza al tocco, di esaltare la musicalità e la cantabilità di questa giovane artista.
La nostra cronaca giunge al termine e, a parte un piccolo cenno, non abbiamo ancora parlato di Alexander Lonquich, Artist in residence. Anche quest’anno Lonquich è stato generoso e infaticabile nel donare il suo talento, costellando il cartellone con innumerevoli interventi in cui si sono ammirati il tocco preciso al pianoforte e la ben nota versatilità nell’affrontare autori di ogni epoca. Come da tradizione, a lui in veste di pianista e direttore dell’Orchestra da Camera di Mantova, in grande spolvero, è stato affidato l’appuntamento di chiusura, dedicato a Chopin con il Concerto n.2 op.21: una boccata fresca di romanticismo, appassionato e mai svenevole.
Per finire, balzando di nuovo nella Woodstock della classica, l’immancabile rinfresco alla mantovana, un momento conviviale dove, ancora una volta, sono cadute le barriere tra palco e platea; dove spettatori e musicisti si sono salutati dandosi appuntamento al prossimo anno. Nel 2025 Trame Sonore tornerà a Mantova dal 29 maggio al 2 giugno. Segnatelo in calendario.
Recensione – racconto di Maria Luisa Abate
Visto a Mantova dal 29 maggio al 2 giugno 2024
Foto MiLùMediA for DeArtes
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