Nella sala dei Gigli a Palazzo Vecchio, l’opera del ‘400 torna a splendere grazie a Friends of Florence.

La Fondazione Friends of Florence è impegnata da tempo nel sostegno di importanti interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio fiorentino e toscano e ha già sostenuto alcuni lavori di restauro di opere delle collezioni di Palazzo Vecchio (come quello del 2019 sul Putto con delfino di Andrea del Verrocchio [vedi qui] e sulle pitture della sala del museo in cui questo è esposto).

Il bronzo di Donatello raffigurante Giuditta e Oloferne è tornato a splendere nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio dopo l’intervento di restauro conservativo realizzato grazie al sostegno di Friends of Florence. Il progetto è stato articolato in due fasi, della durata complessiva di circa 10 mesi, con esecuzione delle opere affidata direttamente dal soggetto donatore.

Il bronzo è stato svelato il 3 giugno 2024 nella Sala dei Gigli alla presenza, tra gli altri, della Vicesindaca e Assessora alla Cultura del Comune di Firenze, della Console Generale degli Stati Uniti d’America Daniela Ballard e di Simonetta Brandolini d’Adda Presidente di Friends of Florence, che ha ringraziato, tra gli altri, i donatori senza i quali non si sarebbe potuto sostenere l’intervento: Catharin Dalpino, Anna & Paul Friedman, Lauren & Phil Hughes, Judith & Arthur Rubin, Loralee West.

NOTIZIE STORICHE
Il gruppo bronzeo raffigurante Giuditta e Oloferne (1457-1464) è una delle opere più note e celebrate di Donatello, per la sua potenza espressiva, per la maestria e la raffinatezza della tecnica di esecuzione, nonché per l‘avvincente storia delle vicissitudini che lo portarono a diventare un vessillo della libertà di Firenze.

L’opera reca la firma del suo autore incisa nel cuscino sul quale poggiano i due personaggi. Secondo l’ipotesi più accredita venne commissionata a Donatello da Piero de’ Medici intorno al 1457. Rimase interrotta a causa della partenza per Siena del suo autore, che con alcuni collaboratori la portò a termine tra il 1461 e il 1464, quando fu collocata nel giardino dell’antica residenza medicea di via Larga, l’attuale Palazzo Medici Riccardi, a fare da contrappunto al David bronzeo del medesimo scultore che già si trovava nel vicino cortile (oggi nel Museo Nazionale del Bargello).

Secondo l’omonimo libro della Bibbia, la giovane ebrea Giuditta salvò la propria città dall’assedio dell’esercito assiro tagliando la testa al suo generale Oloferne dopo averlo sedotto e fatto ubriacare. All’epoca Giuditta veniva generalmente rappresentata già trionfante sulla testa mozzata del suo nemico.

Donatello, con grande originalità, aggiunse la figura di Oloferne, realizzando così la prima opera isolata di grandi dimensioni dedicata a questo tema, e colse l’azione nel suo svolgimento, rappresentando l’eroina in una salda e fiera posizione eretta, con il braccio che impugna la spada alzato con impeto e pronto a sferrare il colpo finale. Il corpo esangue del tiranno è incastrato tra le gambe di Giuditta, con gli arti che pendono vilmente dal basamento bronzeo, dove tre rilievi bacchici rimandano alla sua lussuria. Il bronzo era originariamente impreziosito da dorature, di cui oggi rimangono pochi frammenti.

L’opera rileggeva in chiave laica e politica il racconto biblico della giovane eroina, come attestavano due iscrizioni che recava nel basamento lapideo quando si trovava nel giardino mediceo, andate perdute: la prima la qualificava come simbolo del trionfo dell’umiltà sulla superbia e della virtù sulla lussuria; la seconda conteneva la dedica di Piero de’ Medici che le attribuiva la funzione di modello di fortezza e libertà, incitando i cittadini a seguire l’esempio di Giuditta per la difesa della Repubblica fiorentina.

Il secondo significato divenne predominante quando nel 1495, a un anno di distanza dalla cacciata dei Medici e dalla proclamazione della nuova Repubblica di ispirazione savonaroliana, la Signoria di Firenze deliberò di confiscare questa opera, insieme ad altre che si trovavano nella residenza medicea, e di trasferirla nella propria sede di governo. Le due epigrafi del basamento vennero sostituite con quella odierna che reca la data del trasferimento e che ha fatto assurgere il bronzo a simbolo della libertà fiorentina. La Giuditta venne posta in bella vista sull’arengario del Palazzo della Signoria, dove rimase finché nel 1504 dovette lasciare il posto al David di Michelangelo, penalizzata dall’esigenza di trovare una collocazione alla nuova scultura e dalle critiche mosse a tale fine da una fazione alla quale pareva sconveniente fare rappresentare la città da una donna che uccide un uomo e che inoltre le attribuiva la colpa di essere un “segno mortifero” portatore di cattiva sorte, perché lì giunta quando Firenze stava perdendo il dominio di Pisa.

Due anni più tardi era di nuovo in piazza, sotto la Loggia della Signoria, ma solo nel 1919, dopo essere stata messa in sicurezza durante la guerra, venne ricollocata, in posizione centrale, sull’arengario di Palazzo Vecchio. Da lì non venne più rimossa, se non per ragioni di sicurezza durante la seconda guerra mondiale (1940-1946), quando venne anche restaurata da Bruno Bearzi, per conto delle fonderie Marinelli, finché dopo le celebrazioni medicee del 1980, essendo stato constatato un avanzato stato di degrado del bronzo, fu deciso di sostituirla in esterno con una copia e di trasferirla nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio. In occasione del trasferimento l’opera venne sottoposta, per la prima volta, a un accurato restauro scientifico, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze in Palazzo Vecchio, tra il 1986 e il 1988.

IL RESTAURO ODIERNO
A distanza di così tanto tempo dall’ultimo restauro e da un successivo intervento di manutenzione eseguito nel 2004, il bronzo appariva gravemente offuscato da uno strato copioso di pulviscolo atmosferico depositatosi nel corso degli anni.

La prima fase dell’intervento ha preceduto l’esposizione di Palazzo Strozzi “Donatello. Il Rinascimento” [vedi qui] poiché il bronzo faceva parte del percorso parallelo sul territorio, fuori mostra. Durante tale fase si è proceduto a eseguire un’accurata documentazione ravvicinata dell’opera e a replicare la spolveratura intrapresa nel 2004. Questo primo esame si prefiggeva di localizzare sul bronzo alcune scelte operative e tecniche dell’ultimo intervento dei restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure (che furono gli insegnanti dell’autore del restauro odierno), ripercorrendo quella stessa campagna diagnostica e analizzando alcuni dei medesimi campioni insieme ad altri nuovi tramite l’utilizzo delle odierne strumentazioni, a confronto con le conoscenze acquisite negli ultimi quarant’anni di studio dei bronzi antichi.

La seconda parte dell’intervento è stata avviata dopo qualche mese, a risultati diagnostici definitivi, previe opportune considerazioni con la Direzione dei Lavori e la funzionaria competente per la Soprintendenza. Era infatti emersa la necessità di un intervento più articolato di una semplice manutenzione straordinaria, che andasse a ‘rinnovare’ la pulitura delle superfici eseguita durante il restauro del 1986-1988.

Nell’intervento odierno sono state rimosse tutte le problematiche conservative del metallo che si erano generate in questi decenni e che continuavano a progredire, sebbene più lentamente, grazie al ricovero all’interno del museo. Sono stati ‘ritrattati’ alcuni bruschi passaggi cromatici (e con essi alcune sostanze minerali superficiali) dovuti a processi di ossidazione o a residui di depositi che il precedente intervento non aveva completamente eliminato e risolto, o ancora ad alterazioni generate dalle operazioni di calco diretto (pratica oggi superata) eseguite per la realizzazione della copia ora sull’Arengario di Palazzo Vecchio.

Un’importante soluzione operativa è stata data dall’impiego del laser messo a disposizione dalla ditta EL.EN, che proprio all’Opificio delle Pietre Dure oltre un ventennio fa veniva tarato sui bronzi dorati, per risolvere i limiti delle tecniche di pulitura chimiche e soprattutto meccaniche in uso a quel tempo. Con la spolveratura del 2004 erano state individuate solo tre piccolissime tracce di doratura a foglia eseguita da Donatello. La spolveratura successiva ne ha confermato la presenza, ma l’osservazione al microscopio a contatto di tutta la superficie, cm per cm, ha portato a supporre che potessero esserci molti più residui di rivestimento aureo, ipotesi poi confermata dalle successive analisi.

Si è quindi proceduto alla pulitura di quelle zone con l’impiego del laser, che ha permesso di riportare in luce diversi nuovi frammenti aurei conservati in più aree, per un totale di circa 13 cmq, in alcuni casi, individuando anche gli andamenti e i confini delle campiture e, quindi, di chiarire quali parti del bronzo fossero originariamente impreziosite da dorature, frequenti nella scultura fiorentina di quel periodo e ricorrenti nelle opere di Donatello.

I risultati conseguiti sulle superfici del bronzo hanno portato anche a riconsiderare i materiali da utilizzare per la sua protezione finale, ora costituita da una stesura filmogena di vernice acrilica, coperta a sua volta da uno strato di sacrificio di cera analoga a quella del precedente restauro, all’epoca impiegata per la prima volta dopo importanti studi comparativi.

Il restauro ha permesso anche di integrare la conoscenza della tecnica esecutiva dell’opera con qualche nuova informazione su particolari dell’assemblaggio del bronzo in precedenza non rilevati. È stato inoltre eseguito un intervento di manutenzione del basamento lapideo del gruppo bronzeo.

M.F.C.S.
Fonte: comunicato stampa del 3 giugno 2024
Immagini di Antonio Quattrone