Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: Aida “di cristallo” di Stefano Poda. Torbidoni, Rehlis, Kunde, Enkhbat. Direttore Marco Armiliato.

La piramide di raggi laser che si incrociano alti sulle teste degli spettatori è tornata a far rivivere un Egitto abbagliante di luci e di argenti. Al suo debutto, la scorsa estate, era stata battezzata “Aida di cristallo”: firmata da Stefano Poda, ha fatto ritorno all’Arena di Verona in questo 101° Festival lirico.

Abbiamo notato che, sulle gradinate alle spalle del palcoscenico, erano presenti i previsti residui post-industriali o pezzi di un’astronave precipitata, mentre sulla destra mancava l’antica colonna spezzata. Peccato, perché i due elementi, a nostro modesto parere, erano sostanziali per formare visivamente un arco temporale nel mezzo del quale collocare questa Aida, in bilico tra passato e futuro, ma anche a metà tra la vita e la morte, proprio come immaginato da Verdi per i suoi protagonisti. Concetto della centralità del tempo evocato anche dalle coreografie “a lancette” (coordinatore del Ballo Gaetano Bouy Petrosino), o ancora scarne e rituali a fare da contrappunto ad altre scene in cui i corpi della miriade di figuranti si sono aggrovigliati in masse informi.

Al centro, l’enorme mano reticolata le cui dita si muovevano lentissimamente protendendosi verso il cielo e verso le divinità, oppure si richiudevano sopra i protagonisti. Tema ripreso nelle insegne ridisegnate a forma di mano aperta o chiusa a pugno, e suddivise, forse un poco ingenuamente, tra schiere bianche e schiere nere a simboleggiare le due fazioni in guerra. Su tutto ciò (direttore degli allestimenti scenici Michele Olcese) si è alzato il globo argenteo che ci piace pensare potesse rappresentare al contempo sia una navetta spaziale venuta da un altro mondo e da un altro tempo, sia essere simbolo identificativo del dio Ra: un sole tecnologico sorto a illuminare il destino d’un popolo dalle credenze eliocentriche.

Vogliamo anche quest’anno sottolineare la bellezza dei costumi, anch’essi come l’intero insieme firmati da Poda, e che sarebbero degni delle passerelle di alta moda per lo stile e per i tessuti ricercati, fatti di perline o di tessere metalliche tintinnanti, di frammenti di specchio fino ai geroglifici tatuati sulla pelle.

E poi fumi, cambi luce repentini, laser di ogni colore e piccole piramidi in plexiglass come quella – elemento simbolico di un destino già scritto – in cui riposa Aida prima di alzarsi e cantare l’ultima volta il suo amore a Radamès per poi morire assieme a lui. Un allestimento kolossal che non solo ha ripresentato la sua molteplicità di significati, una concettualità esplicita o sottintesa (che avevamo provato a dipanare nella recensione dello scorso anno, vedi qui) ma anche ha risposto a quella spettacolarità che è elemento imprescindibile areniano.

Come lo scorso anno, è tornato sul podio Marco Armiliato a imprimere tempi fluidi nel rapporto buca/palco, reso complicato dall’essere le voci disposte a volte dispersivamente, anche quelle del Coro preparato e reso vocalmente compatto da Roberto Gabbiani. Situazione registicamente motivata quanto vocalmente disorganica che il direttore Armiliato ha gestito cercando di coglierne le opportunità “stereofoniche” (già presenti in Verdi: basti pensare alle trombe egizie), con sensibilità, senza indulgere in facili effetti bensì ponendo attenzione a esaltare la ricercatezza del dettato verdiano. Raffinatezza perseguita sempre dal direttore, soprattutto in quelle pagine che sappiamo essere a rischio “marcetta”, eseguite con ammirevole misura dall’Orchestra areniana. 

Chi scrive ha assistito alla seconda recita in cartellone, che presentava quasi il medesimo cast della ‘prima’. Marta Torbidoni ha esordito con successo in Arena e nel ruolo di Aida, cui ha dato voce sopranile piacevolmente scura, dai volumi morbidamente generosi, mentre nell’aspetto attoriale ha dotato l’etiope fatta schiava di carattere volitivo, così come decisi sono stati i suoi slanci verso Radamès. Agnieszka Rehlis, mezzosoprano d’origine polacca, era la principessa egizia Amneris, e ha riscosso grande successo per l’emissione fluida e pastosa in tutta la gamma: nei registri bassi dove maggiormente sono emerse le belle venature brunite così come negli squilli saldamente poggiati e proiettati.

Gregory Kunde era Radamès. Pochi giorni fa, riferendoci a Turandot, avevamo sottolineato come il tenore statunitense stesse compiendo un tour de force, in altri teatri e prevalentemente in Arena, con serate consecutive. È pertanto stato fisiologico che la voce sia parsa minimamente affaticata. Ma intendiamoci: la recita è risultata ottima, solo venata da piccole discontinuità. Kunde, che l’anagrafe ci ricorda non essere più un ragazzino, ha gestito al meglio i propri mezzi di cromo-vanadio (lega più resistente dell’acciaio) dosandoli attentamente e giostrando sulla ben nota eleganza stilistica che lo porta a non forzare mai bensì a cesellare il suono, avvalendosi anche della tecnica usata con intelligenza oltre che con perizia. Grazie all’altrettanto nota sensibilità interpretativa ha donato al condottiero egiziano un carattere forte eppure dolce nel sentimento amoroso, mettendo magistralmente in primo piano l’uomo.

Corde vocali di extralusso e di preziosa caratura per Amartuvshin Enkhbat, baritono mongolo richiesto sui più importanti palcoscenici al mondo, del quale già in altre occasioni abbiamo lodato l’autentica verdianità. Voce sontuosa, dalla dizione impeccabile, così come eccelse sono state la proiezione, il fraseggio curato meticolosamente, la padronanza sia nell’uso della tecnica che dell’espressività, la ricchezza di colori e accenti. Non ultimo, ha costruito perfettamente il personaggio di Amonasro, Re etiope padre di Aida, sconfitto, prigioniero, ma non domo.

Riccardo Fassi anch’egli sentito pochi giorni prima in Turandot, sempre all’Arena, ora nelle vesti del Re d’Egitto ha nuovamente sfoggiato la voce calda, profonda e naturalmente nobile. Il basso polacco Rafał Siwek dai volumi importanti e l’appropriata dose di ieraticità, era il gran sacerdote Ramfis. È spiccato limpido l’intervento della sacerdotessa Francesca Maionchi. Puntuale Riccardo Rados il messaggero.

Aida di Stefano Poda replica, con diversi interpreti, fino al 1 agosto per poi cedere spazio, da agosto a settembre, all’Aida nello storico allestimento del 1913.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 20 giugno 2024
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona

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