Di Maria Luisa Abate. Verona: inaugurazione del Festival Shakespeariano al Teatro Romano, con Francesco Montanari e Franco Branciaroli.

Cosa è un fantasma? È un dolore antico, è un trauma, è una carezza data o non data, spiega Davide Sacco. Secondo lui, Re Amleto non ha consistenza fisica né impalpabilità di spettro bensì è una presenza genitrice, imperativa, che detta la morale, la giustizia, l’etica.

Il “Who’s there” (chi va là) shakespeariano per Sacco diventa “Chi vive?”, ripetuto come un refrain angosciante della mente per dirci fin da subito che la vita si nutre di morte e la morte si alimenta di vita. Di quella stessa vita schiacciata sotto un destino che incombe. E allora, si dia il via alla rappresentazione: Amleto, camicia da smoking e cravattino slacciato, assiste al film della sua vita. Sul palco, due file di sedie vuote, senza spettatori, vengono rovesciate da una forza invisibile e formano due cumuli di legno accatastati. Il destino conduce verso un mondo nuovo tutto da costruire.

Una splendida inaugurazione per il Festival Shakespeariano, giunto alla sua 76a edizione, e che rappresenta il fiore all’occhiello dell’Estate Teatrale Veronese. In un clima di festa, con tanto pubblico elegante, è andato in scena Amleto di William Shakespeare. Non un testo bensì “il” testo, ha sottolineato Elisabetta Pozzi prima dello spettacolo ricevendo il Premio Simoni, di cui diremo dopo.

“Il” testo quindi per antonomasia, quello che mette paura anche agli attori più consumati, qui presentato in una bella versione registica e in una ancora più bella versione drammaturgica, entrambe a firma di Davide Sacco. Si sa, ma è d’uopo sottolinearlo, che Shakespeare racchiuda un universo in ogni sua frase, e ogni sua riga possa quindi assurgere a tema centrale della messa in scena di turno. Sacco ha operato tagli e ha aggiunto battute per meglio circostanziare la propria visione che si è avvalsa di Shakespeare come di un vettore che parlasse allo spettatore odierno. Questo Amleto era ambientato negli anni Trenta, ufficialmente del Novecento ma che potrebbero essere anche quelli ormai prossimi del Duemila; in ogni caso in un tempo proteso all’edificazione di un mondo nuovo.

La chiave di lettura prescelta in questo allestimento ha ruotato attorno al fatto che Shakespeare abbia dato lo stesso nome, Amleto, sia al protagonista della tragedia, il Principe di Danimarca, che a suo padre, lo spettro del Re morto. Due facce di una stessa medaglia che Sacco ha elaborato facendone non solo degli alter ego simbiotici, non solo figure speculari, riflessi in cui vedere se stessi, ma anche proponendo Amleto padre come un “regista” dapprima occulto poi manifestatosi apertamente in una scena esplicita ricca di disposizioni impartite al figlio. Un collegamento allo spunto shakespeariano della compagnia teatrale attesa e impossibilitata ad arrivare, che il regista ha sviluppato abilmente.

La visione di Davide Sacco si è compenetrata con la scenografia giostrata sui colori rosso e nero (di Luigi Sacco) che si è avvalsa di una struttura a pannelli che si aprivano a chiudevano: in verità, un must visto e stravisto, tuttavia qui sfruttato assai bene, con molte movimentazioni, con suggestivi effetti di luci e controluci (di Luigi Della Monica) e con il substrato delle atmosfere sonore ideate da Francesco Sarcina (cantautore e frontman del gruppo musicale pop rock Le Vibrazioni); sono solo risultate un poco forzate le per fortuna brevi citazioni a Beethoven e ai Pooh.

Dicevamo di aver visto, in questa regia/drammaturgia, un Re Amleto mentore e anche regista. Un padre che aiuta il figlio a capire e a imboccare la propria strada futura ma che al contempo la traccia coattivamente, di fatto limitandone la libertà. Lo spettro paterno rappresenta un’ossessione, un tarlo martellante e giudicante che incombe, che prevarica, che si sovrappone invasivamente alla sua discendenza. Amleto padre e Amleto figlio diventano l’uno l’altro e viceversa, fino a rendere indistinguibile la sostanza e la mente dell’uomo da quella del fantasma.

Un Principe di Danimarca quindi uomo del presente, confuso fino ai limiti della stabilità mentale dal mondo in cui vive e che stenta a trovare la propria strada. E prima ancora fatica a capire i tanti perché di una vita complicata che incute paura. Questo è il vero spettro per il regista: personificazione ectoplasmatica di un condizionamento mentale dal quale è indispensabile riuscire a sganciarsi.

Perché, come ricorda intrinsecamente il personaggio di Claudio, che dopo aver ucciso il fratello Re Amleto ne ha sposato la vedova, i padri debbono morire per permettere alle generazioni successive di andare oltre. Lo spettacolo si focalizza sul momento di passaggio che segna tanto gli adolescenti quanto coloro che, di ogni età anagrafica, perdano i genitori senza essere pronti ad affrontare la vita da soli.  

Tra qualcosa di già visto e qualcosa per la verità di inflazionato come il duello al ralenti, si sono susseguite belle intuizioni. Su tutte, la morte di Ofelia trasfigurata in un giro di danza assieme al padre Polonio (anche in questo caso, un padre che “conduce” la figlia). La dolce fanciulla, nel gesto estremo di riconquista della libertà, lascia sul terreno un simulacro, il proprio velo bianco, come un bozzolo dal quale la farfalla è fuggita. Un involucro ormai svuotato della vita, abbracciato e cullato in una scena che, alla scrivente questa recensione, ha ricordato la splendida fotografia ribattezzata “La pietà di Gaza” (valsa il World Press Photo a Mohammed Salem – Reuters).

Dopo i primi minuti serviti a “ingranare” (si trattava di una prima nazionale, coproduzione Ente Teatro Cronaca, LVF – Teatro Manini di Narni, Teatro Segreto) è emerso il valore della compagnia attoriale. La vogliamo citare iniziando dai personaggi di contorno, in quanto tutti egualmente sostanziali all’intento registico: Orazio, Rosencrantz e Guildenstern, erano Amedeo Carlo Capitanelli, Matteo Cecchi e Flavio Francucci. L’irascibile Laerte aveva il temperamento di Raffaele Ausiello.Particolarmente apprezzabile la prova di Gennaro Di Biase nei panni dark inquietanti di Polonio, padre di Ofelia col pugno di ferro. Dolce, disperata, risoluta nel riappropriarsi della propria sorte, l’Ofelia di Caterina Tieghi.

Gertrude, Sara Bertelà ha tratteggiato un personaggio materno: in lei l’amore per il figlio Amleto è diventato totalizzante e l’ha chiusa in una prigione di solitudine. Claudio, uccisore del Re Amleto, machiavellico nell’elaborare il suo piano di potere, aveva l’appropriata durezza scenica di Francesco Acquaroli.

Infine, i due protagonisti che, oltre ai rispettivi personaggi, hanno portato sulla scena due diversi modi di fare teatro: uno, maggiormente votato alla verità, alla spontaneità, all’hic et nunc; l’altro, frutto della grande Scuola, incentrato sulla “pura e semplice” bravura nella recitazione, sulle abilità tecniche e le capacità espressive.

Alla prima schiera, appartiene un attore assai stimato e che già in passato si è confrontato con Shakespeare: Francesco Montanari, Principe Amleto, ha declamato il celeberrimo monologo Essere o non essere con gusto attuale, alla ricerca dell’immediatezza, con esiti onorevoli tuttavia non memorabili. Ha invece convinto pienamente per intensità, profondità e veridicità nell’approccio al personaggio e nella rispondenza col costrutto registico.

Alla grande, anzi grandissima Scuola appartiene un gigante come Franco Branciaroli, che, va detto, è svettato su tutti gli altri. A fare la differenza, la marcia in più che ha ingranato, vuoi per esperienza, vuoi per il padroneggiare ogni mezzo espressivo, vuoi per stratosferica bravura. Il suo fantasma di Amleto sprizzava un fascino arcano nel lungo cappotto svolazzante, che ci piace pensare potesse assimilarlo (con diverso temperamento) a un Neo di Matrix ante litteram nel suo sviscerare i perché della vita, con saggezza e impugnando il bastone del comando. Da fantasma in carne e ossa così come nella fissità dell’immagine del suo volto proiettata sul fondale, Branciaroli ha donato l’ennesima magistrale prova attoriale, impostata pur avendo accantonato ogni declamazione artefatta per tararsi anch’egli sulla giovane regia, e sfoderando una gamma espressiva davvero notevole nel corpo e nella voce. Il gigante del teatro italiano sa trasmettere ogni volta nuove emozioni al suo pubblico. Per certo ne regalerà di totalmente differenti a breve su questo stesso palcoscenico, dove è atteso per il “Settembre classico” nel ruolo comico/drammatico del Sior Todero brontolon di Goldoni.

Come accennavamo, prima dell’inizio della recita è stato consegnato il Premio Renato Simoni a una personalità di spicco del mondo teatrale. Quest’anno a essere insignita è stata l’attrice Elisabetta Pozzi (motivazioni del premio vedi qui). La quale, visibilmente emozionata, ha dapprima strappato qualche benevola risata con la sua simpatica schiettezza, poi ha rivolto un pensiero ai colleghi impegnati sul palco condividendone la fibrillazione del debutto, infine ha gratificato il pubblico con un breve stralcio dall’Elettra del poeta greco novecentesco Ghiannis Ritsos. Come consuetudine (Branciaroli era stato il premiato dello scorso anno) ci aspettiamo di poter applaudire Elisabetta Pozzi come protagonista di uno spettacolo nel corso dell’Estate Teatrale Veronese 2025.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Romano di Verona, serata inaugurale del Festival Shakespeariano
– Estate Teatrale Veronese, il 4 luglio 2024
Immagini ETV – Foto Michele Lorenzoni

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