Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: nuovo allestimento di Alfonso Signorini. Immenso Daniel Oren sul podio areniano da 40 anni. Buona la compagnia di canto.
Una carte de Noël d’antan. Una bella cartolina di un mondo che fu, dichiarata come tale e apprezzabile anche per questo oltre che per la gradevolezza visiva e l’efficacia descrittiva. Nell’anno in cui ricorre il centenario dalla morte di Giacomo Puccini, è stato a lui riservato il nuovo allestimento del 2024 all’Arena di Verona, che ne sta celebrando il genio nel corso della stagione (con il titolo inaugurale Turandot per la regia fiabesca ad “effetto wow” di Zeffirelli e, tra pochi giorni, con la splendida Tosca chiaroscurale di Hugo De Ana). La definizione di “progetto speciale” con cui è stata presentata La bohème ha legittimato la decisione guardinga di riservare alla nuova produzione due sole date, collocate nel mezzo del cartellone.
Titolo amatissimo dal pubblico e che mancava in anfiteatro dal 2011, La bohème ha visto al timone della regia Alfonso Signorini. Un nome di grande richiamo mediatico a confermare la vocazione dell’Arena – che è anche uno dei suoi massimi pregi – di calamitare diversi tipi di pubblico. Al pienone di spettatori si sono aggiunti i followers: l’opera infatti, prima del suo inizio, è stata raccontata dai giovani ai giovani attraverso i social, grazie alla collaborazione di una nota rivista, registrando in poche ore oltre un milione di visualizzazioni. Un risultato importante da non sottovalutare; senonché si è rivelato esaustivo del tema della giovinezza preannunciato da Signorini come fulcro della sua regia. A farne il fulcro, ci ha pensato Puccini.
Venendo allo spettacolo, è indispensabile fare un distinguo tra scenografia e regia. Le scene, a firma di Guillermo Nova (assistente Giuseppe Cangemi, luci di Paolo Panizza) hanno proposto una Bohème decisamente bella, dichiaratamente da cartolina. Infatti sul palcoscenico i fondali raffiguranti scorci parigini, incurvati come fossero di cartoncino (svolazzanti al vento dispettoso che spirava nell’Arena) erano contornati da riquadri bianchi, proprio come le cartoline di più vecchio tipo. Una efficace e molto azzeccata rappresentazione visiva di ciò che il capolavoro pucciniano esprime: la giovinezza che passa, che scolora e ingiallisce come i fiori finti che confeziona Mimì o come un vecchio biglietto ricordo trovato in un baule in soffitta. Lasciando scorrere la nostra personale immaginazione, in quella stessa soffitta dove abitano gli squattrinati artisti.
Pittoresche piccole e grandi strutture a vetri richiamavano nello skyline tetti e comignoli, e hanno lasciato intravedere ogni cosa in trasparenza creando una simultaneità di situazioni. Tutto era presente in scena fin dall’inizio: la soffitta del primo atto, i tavolini del caffè Momus del secondo quadro, la neve già accumulata ai margini sia del Quartiere Latino sia della barriera d’Enfer. Situazione che ha fatto venir meno l’effetto sorpresa cui gli allestimenti teatrali in genere, e soprattutto quelli areniani, solitamente non rinunciano, e che ha fatto vacillare la consecutio temporum (ci sia consentito l’uso esteso della terminologia grammaticale). Questo hic et nunc si è rivelato apprezzabile efficace e significativo nel delineare un destino già scritto e forse già diventato un ricordo, quello stesso rappresentato dalle cartoline/fondali; di contro ha sminuito la progressione emozionale suggerita da Puccini, che in poco più di due ore di musica ci conduce magistralmente dall’allegria alla tragedia, dall’amore alla morte, dalle speranze tipiche della giovinezza all’infrangersi dei sogni dell’età adulta, spezzandoci i cuori. Perché assistendo a Bohème si piange, tutti, sempre. E se il ciglio non si inumidisce, se sulla guancia non scorre una lacrima, se non sale il groppo alla gola, vuol dire che qualcosa non ha funzionato a dovere. Stavolta è successo parzialmente perché è egregiamente intervenuta in tal senso la bacchetta del “mago” Daniel Oren, come vedremo tra poco.
Alfonso Signorini non è solo una star televisiva, un affermato giornalista e uno scrittore di successo. Laureato in filologia è anche diplomato in pianoforte. Ha dunque le carte in regola e i titoli per scendere con competenza in campo lirico, dove vanta già alcune esperienze. Aveva preannunciato una impostazione tradizionale e noi siamo grandi sostenitori di questa linea stilistica; tuttavia la sua regia strettamente intesa, ossia disgiunta in questa nostra considerazione dall’apporto scenografico, ci è parsa nel complesso avere avuto un effetto decalcomania, pur essendosi assestata entro i confini di una indiscutibile piacevolezza e di una ancora maggiormente lodevole naturalezza nel rivolgersi al pubblico. La recitazione ha seguito binari standard, con i protagonisti rivolti spesso al pubblico a discapito dell’interazione.
Ma andiamo con ordine. Apprezzabile lo sforzo ideativo riguardante il primo atto, in cui la soffitta era suddivisa su due piani: sotto erano gli squattrinati artisti mentre sopra stava Mimì, in una “bianca cameretta” (buia e scura), intenta a origliare gli inquilini sottostanti con un bicchiere poggiato sul pavimento, studiando un piano di seduzione. Del resto, “Mimì è una civetta che frescheggia con tutti”. Tuttavia Puccini lascia tale aspetto di sottofondo e si concentra sui veri sentimenti, si focalizza sull’innamoramento sincero e spontaneo tra Mimì e Rodolfo: due cuori che pulsano all’unisono nel momento in cui scocca inaspettata la scintilla di un “lume”. Puccini cita, però non musica, il “viscontino” di turno adescato per necessità di sbarcare il lunario, e si concentra sull’autenticità dei sentimenti che si fa strada attraverso una vita dura e crudele, che non fa sconti. Puccini mette in musica quello stupore sorprendente, inatteso, inaspettato, non premeditato, che batte in petto e riscalda cuori e animi anche quando “fa freddo fuori”, quando le mani sono “allividite”, quando il gelo della morte sta bussando alla porta.
Il secondo quadro del primo atto, temibile per qualsivoglia regista o direttore, anche i più esperti, si è tramutato in un incontrollato ammasso di figuranti. La mente di tutti gli habitué areniani è corsa alla lezione del Maestro Zeffirelli, i cui leggendari sovraffollamenti sono ordinati, e dove le persone in scena, in numero sterminato, hanno una posizione e una funzione precise e non ripetitive. Sorvoliamo sulla Befana danzerina e sui Babbi Natale smeraldini con codazzo di elfi (ne abbiamo contati tre: sì, è vero, è la vigilia di Natale), preferiamo soffermarci sulle figure di bella invenzione registica, come i pattinatori (una nota di merito ai costumi assai curati negli accessori, su coordinamento Silvia Bonetti) i quali, lungamente in scena nel Quartiere Latino hanno poi trovato due identici specchi d’acqua ghiacciata (finzione scenica) anche alla barriera d’Enfer, andando a costituire gli alter ego, non privi di poesia, di Mimì e Rodolfo quando si danno il doloroso addio.
A donarci l’indispensabile lacrima finale è bastato il genio di Puccini, nelle mani sapienti di Daniel Oren in stato di grazia. Questa prima stagionale per il Maestro ha coinciso con il 40° anniversario del suo debutto areniano, avvenuto nel 1984 (con Tosca sempre di Puccini); una frequentazione proseguita con affetto, profuso e ricevuto, in circa 550 serate sul podio.
Oren, dalla sensibilità ancora più affinata rispetto al solito, ha magnificamente condotto la “sua” Orchestra areniana, con cui vanta una vera e propria simbiosi, attraverso tempi meno concitati di quanto il direttore solitamente prediliga. Ha dato ampio spazio ai respiri lirici e ai palpiti espressi in partitura, rimanendo fedele a quella progressione di sentimenti cui accennavamo prima: sul calore dell’allegria e della spensieratezza iniziali, Il maestro israeliano ha innestato colori progressivamente più freddi fino alle tinte desolantemente polari della morte, passando magistralmente dalla tristezza dell’autunno all’afflizione dell’inverno che non si aprirà mai più a una nuova primavera, che non vedrà sorgere i raggi di quel “primo sole” che sognava Mimì per riabbracciare il suo Rodolfo. Oren sa perfettamente che i fiori che “non hanno odore” confezionati da Mimì non sono retaggi romantici e sdolcinati bensì sono metafore della giovinezza destinata a sfiorire. Questo senso di precarietà, di gioia destinata ad avere una fine, si percepisce in ogni singola nota pucciniana mirabilmente esaltata da Daniel Oren. Splendido, poesia allo stato sonoro.
Positivi gli esiti della compagnia di canto. Mimì era interpretata dal soprano armeno Juliana Grigoryan, giovane e pluripremiato astro in ascesa. Alla sua prima volta sul palcoscenico areniano, ha delineato una figura moderna e attuale, disincantata in ogni fase dell’evoluzione del personaggio: sguardo terso nell‘innamoramento, disincantato nell’abbandono, poi, nell’imminenza della propria fine, di una lucidità consapevole che ha colpito e commosso. Al di là di pronuncia e dizione perfezionabili, la voce era setosa, attentamente plasmata nell’emissione soprattutto in acuto ma altrettanto ben gestita in tutta la gamma.
Vittorio Grigolo ha vestito i panni di… Vittorio Grigolo, nel senso che il tenore ha una personalità sempre più strabordante e prevaricante sul personaggio. Perché no? Il pubblico va in visibilio e questo non può che essere un pregio.
Il pittore Marcello aveva la voce di extralusso di Luca Micheletti, che ben conosciamo per la sua completezza nell’affrontare i ruoli. Il baritono (altrettanto quotato anche come regista e come attore nel teatro di prosa) non ne sbaglia una e risulta sempre perfetto, sia nel delineare il personaggio, in questo caso con sfoggio di interiorità, sia nel canto, ineccepibile sotto ogni aspetto, dall’intonazione, alle dinamiche, al fraseggio curato con sensibilità, cui si aggiunge il timbro di ammaliante bellezza.
Marcello è innamorato di Musetta, che si diverte a farlo ingelosire. Con una presenza scenica vivace nel Quartiere Latino, al cui caos è riuscita a dare (non assumere, ma dare) la giusta quadratura, Eleonora Bellocci, anche lei alla sua prima volta in Arena, è passata dalla voce limpida fresca e tarata a puntino nel celebre Valzer, a toni di intensa sensibilità e di empatia con l’amica morente nell’ultimo atto.
Notevole la brillantezza vocale di Jan Antem, il musicista Schaunard, e ricco di dignità il filosofo Colline dal timbro profondo di Alexander Vinogradov. Rispondenti alle aspettative perché di grande esperienza, gli interpreti dei ruoli di fianco: un Benoit registicamente macchiettistico cui Nicolò Ceriani ha risposto con moderazione e una voce dall’ottimo timbro, impostazione, proiezione; e Salvatore Salvaggio, un Alcindoro registicamente parodistico e vocalmente gestitosi con attenzione e buon gusto, collocandosi appropriatamente accanto alla sua protetta Musetta. Di Riccardo Rados abbiamo solo udito la voce squillante, perso com’era il carretto del giocattolaio Parpignol nel traffico da ora di punta del Quartiere Latino. L’ingorgo stradale ha pure messo a dura prova il Coro, di cui va lodato lo sforzo per mantenere la compattezza, sotto i dettami di Roberto Gabbiani. Bravi in tal senso anche i giovanissimi del Coro di voci bianche A.LI.VE guidato da Paolo Facincani, risultati “a posto” anche scenicamente.
La serata inaugurale del titolo è iniziata con un’ora abbondante di ritardo causa un acquazzone ma poi il cielo si è ristabilito. Qualche piccola goccia non disturbante durante la pausa prevista per il primo cambio scena e la recita è filata liscia sena intoppi, anzi regalando un suggestivo contorno di nuvole e lampi innocui.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 19 luglio 2024
Foto Ennevi
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