All through the afternoon
They have talked of noting…
And now as the first lack of light
Moved in a visible shape and colour through the room,
And their tongues were tired,
And they heard the voices in their nerves,
They waited only for the first darkness to set in
Dylan Thomas
Mi piacciono questi versi.
Sono cari alla mia memoria anche perché, tra tutti i luoghi possibili, li ho trovati citati sulla copertina di un mio LP di jazz, di quelli storici in vinile.
Il LP s’intitola “The Blues” https://youtu.be/as_RLNP6ZnQ prodotto negli USA dalla Pacific Jazz Recording e ristampato in Italia dalla Music Records. Un disco antologico con brani di autori diversi, stilisticamente accomunati dall’appartenenza alla corrente del cosiddetto West Coast Jazz, oltre che dal ricorso al filone tematico del Blues. Tendenzialmente sono ora un po’ più diffidente nei confronti delle antologie, ma all’atto dell’acquisto del disco (1957?) non andavo troppo per il sottile e questo LP finiva spessissimo sul mio giradischi, per più di un motivo: oltre ai versi di Dylan Thomas, la copertina dell’edizione italiana portava una bella foto che ritrae una giovane e incantevole donna che molto m’intrigava e poi naturalmente c’era la musica (per inciso la foto è opera del fotografo italiano Franco Scheichenbauer).
Oltre al brano su cui fra poco m’intratterrò, ce n’erano altri memorabili, per motivi che stanno a cavallo tra il valore della musica, la forza struggente del ricordo, la capacità di rievocare luoghi, volti e voci della giovinezza.
All’inizio del lato due, per esempio, c’era (c’è!) una versione un po’ scolastica da parte del quartetto del pianista Russ Freeman, con Bud Shank al sax contralto, di un famoso song di Harold Arlen e Johnny Mercer, che s’intitola “Blues in the Night”. Lo cito di sfuggita qui per motivi che nulla hanno a vedere con la musica. Quella contenuta nel disco è una versione strumentale, ma erano molto diffuse diverse interpretazioni vocali (Ella Fitzgerald, tra gli altri). Il ritornello comincia così: “My mama done tol’me” (Mia madre non me lo disse). I miei amici ed io avevamo storpiato quelle parole: in assonanza con il dialetto nostrano, quel patetic
o richiamo o rimpianto era diventato “La madar dal Toni” per proseguire con un altro verso molto meno riferibile.
Il jazz della costa occidentale (detto anche californiano) presenta alcune caratteristiche distintive: matrice culturale “bianca, musica di particolare gradevolezza, levigata, eseguita in modo impeccabile, a volte un po’ snervata. Si era soliti contrapporlo a quello della costa orientale: l’East Cost jazz era più “nero” spigoloso e irsuto, legato all’autentica tradizione nera, arrabbiato e vigoroso. Allora? Tutto qui? Bianco contro nero? Los Angeles contro la Grande Mela? No, naturalmente: le cose non sono mai così semplici e schematiche.
Di quanto sia complicata la questione, il brano di cui voglio parlarvi questa volta è prova e testimonianza fin dal titolo: “2 Degrees East – 3 Degrees West”, due gradi a Est, tre gradi a Ovest. Si fa riferimento alla composizione del complesso che lo esegue: due musicisti dall’Est (John Lewis al piano e Percy Heath al basso: una metà del Modern Jazz Quartet di cui abbiamo a suo tempo analizzato un brano) e tre dalla West Coast (Bill Perkins al sax tenore; Jim Hall alla chitarra e Chico Hamilton alla batteria). Ma attenzione: uno dei West Coasters, Chico Hamilton appunto, è di colore; giusto per sgombrare il tavolo da ogni residua tentazione di semplificazione e banalizzazione. Meglio tornare alla musica.
La seduta ebbe luogo il 10 febbraio del 1956, in un piccolo teatro (vuoto) di Los Angeles: una seduta che Sheldon Cohen nelle note all’edizione in CD definisce “motherless”, nel senso che non nasce da un’idea precisa, da un progetto, ma piuttosto dall’occasionale incontro di musicisti di matrice difforme. Tutti i critici che se ne sono occupati tendono a riconoscere a John Lewis il ruolo d’ispiratore o supervisore, anche se nominalmente gli venne attribuita soltanto una leadership condivisa: il complesso venne individuato come “Bill Perkins – John Lewis Quintet”. I critici sono stati piuttosto benevoli nei confronti di questa session: parlarono di “musica solare e accattivante” e, anche se il gruppo appariva a qualcuno “una strana mescolanza”, la musica sembrò caratterizzata da “notevole profondità e spessore”. Ma tutti, anche quelli che non erano del tutto convinti della seduta nel suo complesso (“molto rilassata, ma forse sopravvalutata”) furono concordi nel ritenere alta la qualità del nostro “2 Degrees East-3 Degrees West”: “eccezionale” (Richard Palmer), “delizia di relax e buon gusto” (Steve Voce), “il blues più bello mai uscito dalla penna di John Lewis” (Graham Colombé).
Gli altri brani incisi in quell’occasione sono, al confronto con quello di cui ci stiamo occupando, leggermente più anonimi: pezzi del repertorio standard in esecuzioni talvolta al limite delle prevedibilità, che esaltano soprattutto le caratteristiche distintive di pulizia, decoro e cura formale. Ma il nostro blues è un’altra cosa: più lo ascolto e più si consolida in me la sensazione che a renderlo così particolare e (almeno per me) memorabile sia proprio il tema, una specie di riflessione di John Lewis sul grande canovaccio del blues. Mi colpisce il suo andamento, lo sviluppo tematico obliquo e quasi reticente, inquietante, con un percorso melodico ipnotico e solo apparentemente incerto. Prevale la voce quieta del sax tenore di Bill Perkins, fortemente ispirato allo stile di Lester “Pres” Young (anche di lui, forse ricorderete, abbiamo già parlato) che espone il tema all’unisono con la chitarra, ma sotto affiorano via via i suoni spaziati della sezione ritmica, l’elegante basso di Heath e il gioco percussivo di Chico Hamilton. E poi gli assoli: la chitarra di Jim Hall qui particolarmente bluesy, il tranquillo sax tenore di Perkins e l’elegante e riflessivo pianismo di Lewis. E alla fine la ripresa del tema che, per ragioni che hanno poco a che vedere con la partitura e molto di più con il senso della costruzione che la struttura del brano esprime, pare avere perso le connotazioni d’inquietudine che mi sembrava di riscontrare all’inizio: sento una grande serenità, una visione del mondo tenera e consapevole. Fa anche a voi lo stesso effetto? O forse è solo il rimescolarsi dentro di me di ricordi, affetti e irripetibili sensazioni?