Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: DUE CAST Netrebko, Eyvazov, Salsi e poi Stikina, Kaufmann, Tézier.

La reale bellezza delle regie si vede sulla distanza. La Tosca firmata da Hugo de Ana ha debuttato nel 2006 e, a ogni ripresa, ci conquista come la prima volta, per il fascino visivo degli imponenti elementi scenografici e per i tanti rimandi simbolici che arricchiscono il messaggio senza appesantirlo, con immediatezza; non ultimo per i costumi sontuosamente ricamati. Il tutto, frutto dell’ingegno del regista di Buenos Aires, che rispetta l’ambientazione della Roma papale ottocentesca. Una città scura e oscura, dove il potere viene esercitato con la forza, con inganni, soprusi, torture e crudeltà priva di rimorso. De Ana concilia con maestria la spettacolarità di cui l’Arena di Verona necessita, e la dimensione raccolta, intima, profondamente drammatica dell’opera di Puccini. E declina stupendamente quella convivenza di eros e thanatos che i librettisti Illica e Giacosa attinsero a Sardou.

Sulla scena l’enorme testa dell’arcangelo Michele con il braccio che impugna la spada e che nell’ultimo atto si abbassa: “giustizia le sue sacre armi depose”. L’altra mano invece tiene un rosario, rimosso allorquando la Chiesa, organismo politico prima ancora che religioso, raggiunge il culmine della devianza. Resa evidente dal Te Deum del primo atto, in cui i porporati, in processione o affacciati ai finestroni apertisi sulla parete di fondo, mostrano i volti scarnificati a teschi o mummificati, segno del disfacimento dell’istituzione ecclesiastica. Al posto del fumo dell’incenso, la polvere sollevata dai colpi di artiglieria, echi delle battaglie napoleoniche che riverberano all’interno della chiesa di Sant’Andrea della Valle. L’ultimo atto è ormai arcinoto: Cavaradossi muore fucilato davanti a una croce, mentre Tosca, anziché gettarsi dai bastioni di Castel Sant’Angelo, ascende al cielo sulla testa della statua, brandendo un crocifisso. A lei, de Ana affida la missione di ricondurre il sentimento religioso a “fe’ sincera” d’elevata purezza. 

Chi scrive ha assistito alla seconda recita della programmazione 2024, con identico cast della ‘prima’. Nei panni della protagonista Floria Tosca era Anna Netrebko che vanta ormai un’assidua frequentazione con l’anfiteatro e vi è tornata per la prima volta in questo ruolo. Stella tra le più brillanti al mondo, anzi universalmente riconosciuta come la più fulgida di tutte, il soprano russo ha affrontato una serata di caldo torrido che non ha mai mollato nemmeno nelle ore solitamente più fresche. Superato in breve tempo il disagio dovuto all’afa, Netrebko ha svolto una prova in entusiasmante crescendo, confermandosi incontrastata “diva” dell’opera. La voce, che nei gravi ha assunto seducenti venature ambrate, ha presto emanato la luce che il mondo ammira in lei, assieme a una serie di altre doti che ne fanno un’artista completa: la tecnica ineccepibile, il gusto nel fraseggio più che perfetto, le messe in voce da manuale, la capacità di far arrivare al pubblico i colori in ogni più piccola sfumatura come se ci si trovasse a tu per tu con lei anziché in un teatro all’aperto affollato da migliaia di persone.

La zampata della leonessa è arrivata in “Vissi d’arte, vissi d’amore”: Netrebko ha magicamente reso rarefatta l’atmosfera, ha fermato il tempo (!) e ha lasciato sgorgare la voce con stupefacente naturalezza. Un’abilità a dir poco strabiliante di sfumare le mezze voci in sussurri eterei, cristallini, leggeri come piume, dai riflessi opalescenti di perla. Il pubblico ha ascoltato in un silenzio irreale questo incanto, per poi esplodere in un boato infinito, con insistenti richieste di bis saggiamente non concesso. Immensa anche sotto al profilo attoriale, favorito dalla smagliante forma fisica, Netrebko ha compiuto un lavoro di scavo certosino sul personaggio, di cui ha posto in risalto innanzitutto l’essenza di donna, le varie sfaccettature della femminilità: travolta dal vortice della gelosia per il suo Mario; sconvolta e impaurita dalle avances di Scarpia; sinceramente felice quando crede che la via di fuga con lui sia spianata. Al cadere dell’amato sotto i colpi di fucile la recitazione si è cinta di uno strazio che ha coinvolto direttamente ogni singolo spettatore o spettatrice. Aggiungiamo che quando il soprano entra in scena non ce n’è per nessuno, tanta è la sua carica magnetica catalizzatrice, e il quadro è completo.

Accanto a lei per le prime tre rappresentazioni (ma non più nella vita privata) Yusif Eyvazov, padrone del ruolo di Mario Cavaradossi, dibattuto tra la fede politica e l’amore per Floria Tosca. Abbiamo ricevuto la medesima impressione dell’inizio di stagione, quando sempre in Arena ha vestito i panni di Calaf. La crescita del tenore azero di cui spesso si è parlato in passato ci pare ormai conclusa, per la maturità artistica raggiunta, soprattutto nel tornire il fraseggio e nella tecnica con cui dosa ottimamente le dinamiche. Il timbro si è fatto più aspro; l’emissione trova la giusta proiezione negli acuti, nei quali ha dimostrato una tenuta di fiato notevolmente lunga, che ha scatenato l’entusiasmo del pubblico.

Il baritono Luca Salsi non interpreta ma “è” il Barone Scarpia, tanta è la sua capacità di immedesimazione nel personaggio, che porta in scena con ineguagliabile perfezione. Una figura costruita come meglio non si potrebbe: ambiguo, cattivo, sprezzante, insensibile, avvezzo a ottenere ciò che vuole, il capo della polizia papalina resta un nobile blasonato capace di emanare un fascino noir ipnotico. Caratteristiche supportate dal fraseggio scolpito ed esaltate dalla voce potente, solida, capace di diventare tagliente come lama per poi stemperarsi in preziose smorzature, omogenea in tutti i registri e supportata da una tecnica sopraffina, ben calibrata nelle dinamiche anch’esse tarate in funzione dell’espressività. 

Di contorno, un cast notevole: il fuggiasco Angelotti di Gabriele Sagona; il Sagrestano di Giulio Mastrototaro; gli sgherri Spoletta e Sciarrone, rispettivamente Carlo Bosi e Nicolò Ceriani. Un cameo di lusso il carceriere Carlo Striuli. Un applauso speciale alla giovanissima Erika Zaha che ha cantato lo stornello del pastorello pescatore con una precisione e una intonazione come poche altre volte avevamo udito (e da cantanti più grandicelle di età): bravissima. Il Coro era puntualmente preparato da Roberto Gabbiani e le voci bianche di A.Li.Ve. erano istruite da Paolo Facincani. 

Sul podio per tutte le rappresentazioni, il maestro Daniel Oren ha guidato la “sua” Orchestra di Fondazione Arena, con approccio come sempre viscerale, con attenzione non solo ai passaggi repentini tra toni drammatici e aperture liriche, soffermandosi sull’importanza assunta dal sentimento nella partitura, ma anche esaltando quel magistrale senso del teatro che Puccini aveva e che è emerso vivissimo sotto la sua bacchetta. Questa estate, il direttore ha festeggiato quarant’anni dal suo esordio in Arena, avvenuto proprio con Tosca al Festival 1984 e ciò motiva lo speciale amore da lui nutrito per quest’opera e che si è percepito distintamente all’ascolto.

Solo quattro le repliche in questa estate: l’ultima è domenica 30 agosto, con diverso cast.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 9 agosto 2024
Foto Ennevi

CAST ALTERNATIVO
Sul finire dell’estate, come è ormai consuetudine, Jonas Kaufmann ha fatto ritorno all’Arena di Verona per una sola data, speciale e unica perché ha riunito una terna di numeri uno al mondo.  

Nel ruolo del titolo ha brillato la stella di Elena Stikhina (che già in questa stagione aveva conquistato pubblico e critica come Aida, in entrambi gli allestimenti). Floria Tosca ha mostrato il proprio volto interiore attentamente scandagliato dal soprano russo, che ne ha magnificamente posto in luce la caratterialità a volte contraddittoria, tra dolci abbandoni e impeti volitivi. Voce suadente, dolcissima ma capace di farsi decisa, limpida, dal magnifico timbro e dalla tecnica solida. Un canto caratterizzato da legati morbidi e di ampio respiro, mezze voci cariche di suggestioni culminate nei sussurri di un “Vissi d’arte” intonato accovacciata a terra, a indicare il sentirsi Tosca soverchiata, in quell’istante arresa di fronte al drammatico precipitare degli eventi, prima di trovare in sé la forza di reagire.

Jonas Kaufmann, in Arena, ha la caratteristica di partire con prudenza, per poi dopo poche battute sfoderare quell’eccellenza che ne fa un idolo tra i più acclamati sulla scena internazionale. Alle doti canore, il tenore di Monaco di Baviera aggiunge la capacità di comunicare emozioni e una presenza scenica carismatica. In questa stagione, per un’unica imperdibile recita, ha vestito i panni di Mario Cavaradossi, del quale ha indagato l’aspetto più intimo, espresso avendo scolpito con morbidezza le frasi, le singole parole e avendo legato le note con magnifiche arcate. Sempre accortamente calibrato nella scelta delle dinamiche, la sua linea stilistica è stata un prezioso lavoro di cesello. In questa serata la voce ha denotato qualche lieve incertezza nell’emissione, particolare insignificante a fronte degli acuti sgorgati fluidi, eleganti in quanto privi di inutili ostentazioni, delle mezze voci di grazia sopraffina, delle sublimi messe in voce fatte crescere e nuovamente smorzate, del fraseggio ineccepibile e della tavolozza coloristica prodiga di sfumature. Se “Recondita armonia” si è rivelato carico di speranze d’amore, il suo addio alla vita di “E lucevan le stelle” è stato realmente commovente. C’è già fibrillazione per il prossimo anno, quando è programmata per il 3 agosto 2025 la serata “Jonas Kaufmann in Opera”.

A completare il “tris d’assi” che ha fatto di questa recita un unicum, Ludovic Teziér nelle sontuose vesti del barone Scarpia. Il baritono francese, tra i più quotati al mondo, presenta una linea di canto nobile e tornita, che in questa circostanza, grazie alla padronanza tecnica ed espressiva, ha intelligentemente resa dura, tagliente come una lama d’acciaio, a tratteggiare abilmente un capo della polizia papalina di una crudeltà assoluta, priva di qualsivoglia traccia di umanità. Una figura temibile e terribile. All’attorialità appropriatamente glaciale, Teziér ha contrapposto nella voce una accesa tavolozza di colori, guarnita da un fraseggio meticoloso ed espressivo. Attentamente calibrata nei volumi e nelle dinamiche l’emissione, in special modo in “Tre sbirri, una carrozza”, dagli splendidi risvolti “noir”.

Sul podio era sempre Daniel Oren, di cui abbiamo già scritto sopra e che ancora una volta ha dimostrato la sua eccellenza nel sapersi adattare, entro i contorni della propria personalità direttoriale, alle esigenze dei vari cast, per valorizzare al meglio le peculiarità delle diverse voci, che ha guidato con gesto deciso e preciso.

Abbiamo ritrovato lo stesso cast di contorno: il fuggiasco Angelotti di Gabriele Sagona, il Sagrestano di Giulio Mastrototaro, gli sgherri Spoletta e Sciarrone, rispettivamente Carlo BosiNicolò Ceriani e il cameo di Carlo Striuli come carceriere. Rinnoviamo i complimenti alla piccola Erika Zaha che ha cantato lo stornello del pastorello pescatore anche in questa occasione con intonazione e precisione rare. Una certezza in affidabilità il Coro preparato da Roberto Gabbiani e le voci bianche A.Li.Ve. istruite da Paolo Facincani. 

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 30 agosto 2024
Foto Ennevi

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