Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: folla in visibilio per il grande Maestro, ‘ambasciatore’ della zarzuela.

Una notte spagnola sotto la luna che due sere prima era al suo perigeo e che ha continuato ad apparire meravigliosamente grande e luminosa filtrando attraverso i drappi arancioni che incorniciavano il palcoscenico dell’Arena di Verona.  

La “Noche Española” ha beneficiato di diversi elementi scenografici e parte dei costumi (molti invece erano confezionati ad hoc) della celebre Carmen firmata Zeffirelli, anch’essa in cartellone in questa stessa estate 2024. Forse si sarebbe potuta evitare la concomitanza, tuttavia il Gala ha da subito preso una piega originale e autonoma. I complementi scenici sono stati cambiati a ogni quadro per movimentare lo sguardo, e ampio spazio è stato riservato agli interventi della talentuosa Compañia Antonio Gades, che, sotto la guida della direttrice artistica Stella Arauzo, ha infiammato il pubblico fin dalla coreografia di apertura.

Dopo la scarica di adrenalina dell’incipit ballato, sull’anfiteatro è sceso il silenzio, i riflettori si sono spenti e, al buio, si è vista avanzare una figura. Prima ancora che fosse illuminata e che si potesse realmente distinguere, è partita l’ovazione incontenibile per la star della serata: Plácido Domingo. Un applauso lunghissimo tributatogli “d’ufficio” ad attestare quanto il cantante lirico sia idolatrato dal pubblico. E a ragione. Una carriera stratosferica, unica, dapprima come tenore poi, all’inspessirsi fisiologico della voce, come baritono, inanellando il record di oltre 150 ruoli operistici al suo attivo e un numero incalcolabile di recite, cui si aggiungono le presenze sul podio come direttore d’orchestra.

Con saggezza e intelligenza, il leggendario artista spagnolo negli ultimi anni si è specializzato in un diverso e affascinante repertorio, facendosi ambasciatore mondiale della zarzuela, considerata l’opera lirica iberica, un genere musicale avente oltre tre secoli di storia e candidato a diventare anch’esso patrimonio Unesco (come il canto lirico italiano). Una carrellata di compositori di lingua spagnola, tra i quali de Falla, Chapì, Sorozábal, Giménez, Albéniz, Turina solo per citarne alcuni, è risuonata sul palco, tra un vortice di sottane e scialli svolazzanti e ritmare di nacchere.

Apparso leggermente affaticato nel fisico, Plácido Domingo ha fatto leva sul suo stile di canto elegante, sulla ricchezza delle emozioni sprigionate dalle parole, sulle coinvolgenti doti interpretative con le quali ha fatto breccia nei cuori di un pubblico ultra affezionato, con molte presenze madrelingua che si sono scatenate dinanzi al loro idolo, andando in visibilio. A condividere con lui le luci della ribalta, come solisti e in duetti, la madrilena Saioa Hernández, soprano di razza, dalla vocalità brillante e dalla linea di canto attenta anche, ma non solo, alla pura e semplice bellezza estetica. Poi Arturo Chacón Cruz, tenore messicano che alla spiccata sensibilità interpretativa ha sommato lo squillo potente e una tavolozza di sfumature degna di nota.

In buca, l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona sul cui podio è salito il Maestro valenciano Jordi Bernàcer. Un cast quindi interamente spagnolo per anagrafe, sensibilità, sentimento e anima, elementi tutti emersi nella direzione di Bernàcer che abbiamo grandemente apprezzato per lo smalto dato ai colori, per l’attenzione al significato delle brevi storie che venivano cantate, d’amore o d’azione, pacate o avvincenti, e per aver creato un’atmosfera autentica, non da cartolina.

Al termine, una lunga serie di bis tra cui l’ultimo è spiccato su tutti. Un grande nome della canzone pop e del cinema statunitense, Frank Sinatra, aveva eletto a colonna sonora della sua carriera “My way”. Similmente, ma con tutt’altro significato, Plácido Domingo ha concluso il concerto con una riflessione sulla vita che svanisce quando termina un amore. Una nota di malinconia, non di tristezza, profondamente poetica, cantata con occhio lucido e un dolce sorriso sulle labbra: “Amor, vida de mi vida”, aria tratta dalla zarzuela di Maravilla composta da Federico Moreno-Torroba sulle parole di Antonio Quintero e Jesús María de Arozamena. Assurta a standard, per usare una terminologia jazzistica, Domingo già la eseguiva negli sfolgoranti concerti dei tre tenori (con Pavarotti e Carreras) ed è diventata uno dei suoi cavalli di battaglia. Si parla di un cuore deluso e affranto quando la donna adorata se ne va con una risata, della vecchiaia dell’animo quando è privato della sua metà, della vita che muore quando muore l’amore. Un brivido di romanticismo e un groppo alla gola.

La scrivente ha avuto il privilegio di aver lavorato in una grande produzione con protagonista Domingo (Rigoletto trasmesso dalla Rai in Mondovisione nel 2010). Uno dei nostri piccoli incarichi, durante le riprese cinematografiche delle prove che erano durate mesi, era custodire la fede nuziale del Maestro. Ricordiamo con quanta cura ce l’aveva consegnata, con quante raccomandazioni dello sguardo aveva accompagnato quel gesto di momentaneo distacco, prima di trovare nei giorni seguenti un volto amico presso cui depositare l’anello. Come se l’oggetto luccicante, assieme al nome inciso all’interno, racchiudesse tutto il suo cuore. C’è un Domingo che va oltre la facciata pubblica, oltre i successi, oltre i titoloni di cronaca e i gossip; che travalica quelle gioie e quei dolori, quelle ascese e quelle cadute che costellano la vita di chiunque, ricordandoci che anche i più grandi artisti al mondo sono persone come tutti noi. Questo, ci ha portato alla mente l’aria di Moreno-Torroba, che ha commosso perché racconta di un sentimento semplice e sincero cantato con semplicità e sincerità da un uomo che si è presentato dinanzi al pubblico solo, su un palco vuoto, illuminato da un riflettore. His way.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 21 agosto 2024
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona

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