Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: inscalfibile successo per la storica Aida del 1913, fedelmente ricostruita da Gianfranco De Bosio.
Che meraviglia quando la storia si rinnova negli anni continuando a mantenere una valenza contemporanea. E che soddisfazione, quando la tradizione batte ai punti l’innovazione. Personalmente apprezziamo i linguaggi contemporanei, se ben ideati e ben realizzati, e sosteniamo la necessità di un progresso in campo registico. Ma adoriamo quando il passato, bello e glorioso, si innesta nel presente facendo spuntare nuovi germogli. Il parallelo, il confronto tra ieri e oggi è uno dei must dell’Arena di Verona, che quest’anno oltre alla recente “Aida di cristallo” di Stefano Poda, nella seconda parte di stagione ha riprogrammato quel concentrato di suggestioni intramontabili dell’Aida del 1913, che riscuote immancabilmente un successo di pubblico imponente.
Quando il compianto regista Gianfranco de Bosio, una delle figure cardine del Teatro e del Cinema italiani del Novecento (oltre che dell’Arena di Verona) prese in mano le redini di questo progetto, nel 1982, sapeva di dover compiere una ricostruzione storica. Un lavoro certosino, pionieristico, ambizioso, ardito, di una complessità inimmaginabile, svolto sui bozzetti originali dell’architetto Ettore Fagiuoli e sulle fotografie in bianco e nero d’inizi Novecento. Un lavoro di ricerca e ricostruzione filologica che ha interessato la regia, le scenografie, i costumi e i balletti: tessere di un “mosaico Aida” minuziosamente ricomposte perché risultassero il più possibile rispondenti all’allestimento che il 10 agosto 1913 cambiò il corso della storia del teatro lirico mondiale perché inaugurò il monumento dell’antichità romana come innovativo spazio teatrale.
Nella ripresa del 2019, curata personalmente da de Bosio (chi scrive ricorda con emozione la conferenza stampa di allora con il grande Maestro, poi scomparso nel 2022) le scenografie furono restaurate, vennero introdotti moderni disegni luci e i costumi furono rinnovati liberamente ispirandosi agli originari figurini dell’egittologo Auguste Mariette, ossia colui che fornì a Verdi l’intreccio narrativo dell’opera. La regia tuttora segue le disposizioni sceniche che lo stesso Giuseppe Verdi curò per la prima milanese dell’opera nel 1872, nella movimentazione di solisti, ballo, figuranti, con gli ovvi adattamenti operati da de Bosio per rapportarsi alla vastità del palcoscenico areniano.
Anche Susanna Egri, nella riscoperta iniziata nel 1982, compì lunghi e accurati studi per ricreare delle coreografie che fossero il più possibili rispondenti allo stile dell’epoca. Un lavoro meticoloso e incessante che ha portato a una revisione coreografica nel 2013, risultante ancora più fedele della precedente. I costumi attuali risplendono di nuovi ori e di gioielli scintillanti, le acconciature sono molto elaborate e, novità di quest’anno, la pelle degli etiopi o dei giovani danzatori che impersonano i moretti, si è fatta chiara e perlacea. Tradizione, quindi, mediata attraverso la sensibilità odierna.
Quello che oggigiorno vediamo, a centoundici anni dalla prima rappresentazione, a ventidue anni dalla sua rinascita, a un battere di ciglia dall’ultimo restyling, è un pezzo di storia che rivive, che si ripresenta fresco valido ed efficace, oltre che con un carico di suggestioni unico e irripetibile. L’Aida del 1913 vanta il record di essere l’allestimento più replicato nella storia dell’anfiteatro, con 267 rappresentazioni durante 22 edizioni del festival. E ogni volta registra un gradimento di pubblico che parla da solo.
Sul podio, Daniel Oren ha diretto l’Orchestra di Fondazione Arena con la maestria che lo contraddistingue, traendone una gamma coloristica vasta e dal dettaglio verdiano, curando accenti e contrasti dinamici, e tenendo saldamente “incollate” buca e palco. Dopo aver già scritto di tutto e di più per lodare il Maestro israeliano, questa volta vogliamo soffermarci sulla filosofia con cui affronta il pubblico internazionale dell’anfiteatro, e che ci trova pienamente concordi. L’Arena non è uno spazio teatrale come gli altri: è speciale in tutto, e come tale va vissuta. Oren, nei suoi quarant’anni di frequentazione veronese, non si abbandona a cenni di insofferenza verso quanti applaudono interrompendo l’esecuzione: sospende il suo gesto impetuoso e attende serafico (se la serata è rovente bevendo un sorso d’acqua), ben comprendendo il valore dell’apprezzamento anche quando giunge fuori tempo, in quanto rivolto innanzitutto a Giuseppe Verdi. Al termine della rappresentazione, Daniel Oren si è rivolto al pubblico alzando le braccia con gesto direttoriale per incitarlo a un “forte” di applausi prontamente girati ai “suoi” Orchestrali.
Nell’alternarsi di artisti, tutti nomi di spicco nel panorama internazionale, abbiamo ritrovato alcune voci straordinarie, già udite nel corso di questa stagione.
Elena Stikhina ha vestito le storiche vesti della principessa etiope Aida, risultando sempre più votata all’introspezione, allo scavo psicologico del personaggio. La voce splendida, soave e suadente, limpida, del soprano russo, dal magnifico timbro, dai legati morbidi e d’ampio respiro, ha corso per l’anfiteatro negli acuti come nei filati opalescenti, realmente emozionanti e carichi di sentimento.
Gregory Kunde, presenza frequente in Arena, in questa serata è apparso in gran forma. Il tenore statunitense ha gestito al meglio i propri importanti e ultra rodati mezzi giostrando sull’eleganza stilistica, su un gusto e una classe che gli hanno permesso di non forzare il suono, cesellandolo con tecnica sapiente, emersa soprattutto negli squilli sicuri, nelle sopraffine smorzature, nel fraseggio espressivo. Con sensibilità interpretativa ha donato al condottiero egizio Radamès un carattere forte eppure tenero nello slancio amoroso.
Di notevole caratura l’Amneris del mezzosoprano bielorusso Ekaterina Semenchuk, dall’emissione generosa, piena, levigata, di grande omogeneità in tutta la gamma. La tecnica di canto estremamente curata ha convinto pienamente anche dal punto di vista interpretativo: principessa egizia imperiosa e di toccante disperazione quando si rende conto di non essere ricambiata dall’uomo di cui è innamorata.
Quando Youngjun Park ha iniziato a cantare, abbiamo impugnato il binocolo per avere conferma che davvero si trattasse dell’annunciato baritono sudcoreano, tanto perfetta era la pronuncia italiana, sommata alla dizione chiaramente intelligibile, che ha evidenziato lo studio sul fraseggio, svolto con accuratezza e sensibilità. Un Amonasro di carismatica presenza scenica, dal bel timbro, dalla voce decisa capace di attutirsi in morbidezze, dando risalto a colori e accenti.
Ramfis aveva il timbro del basso moscovita Alexander Vinogradov, ricco specialmente nei registri gravi, autorevole nei panni del Gran Sacerdote, influente guida del suo popolo. Il cast si completava con Riccardo Fassi dall’emissione calda e venata di nobiltà nel dar voce al Re. Appropriato il Messaggero di Carlo Bosi e ammantata di mistero la Sacerdotessa, ruolo d’elezione per Francesca Maionchi.
Al solito puntuale e votato all’espressività il Coro, specialmente in questo titolo che è uno tra i suoi cavalli di battaglia, preparato da Roberto Gabbiani. Una valanga di applausi ha premiato l’esibizione dei primi ballerini: Futaba Ishizaki, affiancata da Gioacchino Starace e Denys Cherevychko. Coordinatore del Ballo Gaetano Bouy Petrosino.
L’ultima replica dell’Aida del 1913 è fissata per il 5 settembre, mentre il cartellone del Festival operistico 2024 si chiuderà il 9 settembre. Le date del festival 2025 sono già note e la biglietteria è aperta.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 22 agosto 2024
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