‘Lectio’ del Maestro Giovanni Acciai sul compositore del 600, in occasione della pubblicazione di un CD con una prima esecuzione mondiale.
Ci piace immaginarlo come l’Indiana Jones della musica. Il Maestro Giovanni Acciai, universalmente stimato come uno dei più grandi conoscitori del genere antico e barocco, da molti anni si dedica con passione ed entusiasmo alla riscoperta di compositori che furono famosi al loro tempo e oggigiorno sono ingiustamente poco conosciuti, ai quali restituisce il merito dovuto. Studi approfonditi e ricerche certosine spesso su figure delle quali restano poche tracce documentarie, svolti con accuratezza storica e rigore filologico. Un lavoro che non resta confinato nel buio degli archivi ma che sfocia in prodotti di altissimo valore da presentare al pubblico, sia in ambito discografico che concertistico.
Persona di sterminata competenza e di gentilezza squisita, il Maestro Acciai ha risposto alle nostre domande inerenti la recente pubblicazione di un CD che va a implementare un corpus di incisioni molto vasto comprendente perle di assoluta rarità.
Maestro, cosa la spinge a essere una sorta di «archeologo – esploratore» della musica antica e barocca?
Mi spinge l’amara consapevolezza che lo sterminato patrimonio musicale, racchiuso nei manoscritti e nelle opere a stampa dei compositori del passato, sia ancora tenuto ostaggio degli archivi e delle biblioteche che lo conservano, senza la possibilità di essere riportato in luce, di essere riproposto all’attenzione del pubblico, di essere registrato su disco o su altro supporto informatico, onde preservarne la memoria storica e artistica nel tempo.
In Italia, a fronte di un’intensa e brillante attività musicologica, assistiamo a una scarsa trasformazione «pratica» del lavoro di ricerca effettuato. Sovente accade che opere importanti di autori del passato vengano restituite alla fruizione degli studiosi e del pubblico mediante accuratissime edizioni critiche, le quali, tuttavia, non si trasformano quasi mai, in esecuzioni pubbliche e in registrazioni discografiche.
Iniziamo dall’attività discografica, già molto ricca. È da poco uscito il CD dal titolo Novelli Fiori Ecclesiastici, per l’etichetta Da Vinci Classics (vedi qui), contenente quattordici tracce, per poco meno di un’ora di musica, dall’Opera IX di Michel’Angelo Grancini. Una prima registrazione mondiale che riaccende i riflettori su un autore milanese vissuto dal 1605 al 1669. La stessa data di nascita è frutto di accurate ricerche che hanno permesso di ricostruirne la vita artistica, narrata nel libretto allegato al disco. Da dove, l’idea di dedicarsi proprio a Grancini?
Sono decenni che dedico le mie ricerche alla musica barocca e, in particolare a quella lombarda, fiorita nel corso del secolo XVII, soprattutto in quel centro propulsore e strategico che fu la basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo. Da qui, il mio interesse nei confronti di Tarquinio Merula (1595-1665), di Alessandro Grandi (1586-1630), di Giovanni Battista Crivelli (1590-1652), di Giovanni Legrenzi (1626-1690) e Giovanni Battista Bassani (1650-1716). Allargando il campo della ricerca e spostandolo su un altro centro nevralgico come Milano, non poteva non attirare la mia attenzione e suscitare il mio interesse un compositore come Grancini che, peraltro, avevo già studiato agli esordi della mia carriera.
Di questo autore non si sapeva quasi nulla. Da dove è partito, per ricostruire il puzzle della carriera?
È fuor di dubbio che dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi, l’attenzione riservata dagli studiosi e dagli esecutori a Michel’Angelo Grancini e al suo vasto lascito musicale, non sia stata per nulla sollecita e soprattutto adeguata all’importanza che il personaggio meritava, nonostante monsignor Giuseppe Biella (1906-1967), patrocinatore della nuova serie della rivista Musica Sacra (fondata da Guerrino Amelli) e direttore della Polifonica ambrosiana, ne avesse intuito il valore artistico e lo spessore musicale in un breve quanto denso saggio intitolato Un musicista milanese del Seicento: Michelangelo Grancini.
Una dozzina d’anni più tardi, in occasione della tricentenaria ricorrenza della morte di Grancini (1969) il musicologo senese Guglielmo Barblan, direttore della biblioteca del Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano e libero docente alla locale Università statale, riprendeva a occuparsi del nostro autore (Michel’Angelo Grancini a 300 anni dalla morte «e a meditare su qualche pagina di questo maestro che in vita godette di particolare fama» […] nella speranza che […] possano stimolare ulteriori studi, approfonditi e pazienti». Invito, raccolto da Annalisa Lombardi nel 1972, con uno studio accuratissimo sulle fonti documentarie (Ricerche su Michelangelo Grancini, in «Contributi e studi alla musica lombarda del Seicento», volto a gettare nuova luce su molti punti oscuri o incerti della biografia del Maestro.
In tempi recenti, la situazione non è per nulla cambiata e il disinteresse della musicologia nostrana, per non dire di quella d’oltre confine, nei confronti di Grancini si è fatto ancora più evidente e il silenzio sceso, dopo gli anni gloriosi di monsignor Biella, intorno alla vasta produzione musicale di questo insigne compositore milanese, è vergognoso oltre che imbarazzante.
D’altra parte, nello sconfinato orizzonte della geografia musicale italiana del secolo XVII, Grancini non è di certo l’unico autore a subire l’onta dell’oblio e a non ricevere in termini musicali e musicologici quello che gli sarebbe dovuto. Basti pensare a molti suoi colleghi che lo precedettero o lo seguirono nell’incarico di maestro di cappella del duomo di Milano (da Vincenzo Ruffo a Pietro Ponzio; da Ignazio Donati ad Antonio Maria Turati, tanto per citare alcuni nomi importanti) e che furono figure di tutto rilievo nel panorama musicale lombardo di quel periodo.
Riassumendo, Grancini fu organista in tre chiese milanesi per poi diventare organista e infine maestro di cappella nel Duomo di Milano. Un musicista pertanto molto stimato all’epoca.
Esatto.
A questa attività affiancò quella di compositore di musica sacra, senza però essere mai apprezzato dal cardinale Federico Borromeo (se non ricordiamo male). Perché il cardinale definì la sua «musica effeminata»? E, musicalmente parlando, cosa c’entra la controriforma con Grancini?
A definire «effeminata» la musica di Grancini non fu il cardinale Federico Borromeo che alla data della pubblicazione dei Novelli Fiori Ecclesiastici (1643) era già morto da una dozzina d’anni né il cardinale Cesare Monti, l’inflessibile prosecutore dell’azione pastorale del suo predecessore nella diocesi milanese, bensì lo stesso Grancini, nel compiere atto di contrizione per aver osato porre sul frontespizio di questa sua opera nona, la sconveniente dicitura «concertati nell’organo all’uso moderno». Sebbene l’evocazione dell’«uso moderno» fosse alquanto blanda, dal momento che il quartetto vocale sostenuto dall’organo non prevedeva l’affiancamento di strumenti né manifestava atteggiamenti lessicali sconvenienti o comunque tali da giustificare un atto di censura, l’opera non piacque alle gerarchie ecclesiastiche milanesi. E non piacque loro per quell’aggettivo «moderno», così manifestamente esibito che capeggiava sulla prima pagina della raccolta; per quella dichiarazione di adesione alle nuove tendenze del linguaggio musicale (il canto monodico e il concomitante «stile concertato») che ormai ovunque, ma non ancora a Milano, stavano soppiantando l’antico idioma polifonico di palestriniana memoria e, con esso, abiurando quanto era stato stabilito dai padri conciliari tridentini in materia di musica sacra.
A conferma della centralità che la Chiesa milanese svolgeva in quel tempo, vi sono documenti importanti, fra i quali gli Acta Ecclesiae mediolanensis, emanati nel 1565 dall’Arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Borromeo, in occasione del primo concilio provinciale, svolgono un ruolo principale: quello di favorire la piena attuazione delle direttive tridentine in materia di musica sacra. Vi si legge, infatti, che «ne’ divini Offici, e in chiesa non si eseguano né canti profani, né suoni; nell’esecuzione dei canti sacri non si spieghi la voce più che non sia lecito e neppure si esegua musica con espressioni lascive. Il canto e i suoni siano gravi, pii e austeri e consoni alla Casa di Dio e alle lodi del Signore; le parole si pronuncino in modo da venir comprese e da suscitare nei presenti sentimenti di pietà cristiana. Si impieghi soltanto l’organo come strumento; vengano esclusi in maniera tassativa gli altri strumenti».
Poi cosa successe nella diatriba tra le gerarchie ecclesiastiche e il musicista? Grancini ebbe delle conseguenze per questa sua «ribelle» propensione a guardare avanti?
Certo che le ebbe, in quanto per poter continuare a svolgere le sue funzioni di organista e poi quelle di maestro di cappella del Duomo di Milano, dovette compiere atto di pentimento pubblico, dedicando l’opera decima, Musica Ecclesiastica da Cappella a quattro voci, divisa in Messe, Motetti, Magnificat (Milano, 1645) all’arcivescovo Monti e pronunciando parole di scherno nei confronti della sua stessa musica che definisce, appunto, «effeminata». Non oso immaginare lo strazio e la sofferenza che il Nostro dovette provare nel compiere un simile gesto. Tarpare per sempre le ali della sua fa ntasia e del suo estro creativo in nome di un oscurantismo religioso che era duro a morire e che perdurò ancora per lungo tempo.
Lo stile innovativo di Grancini si discostava dalla tradizione di Palestrina, e quindi dalla polifonia per come la si conosceva allora, per avvicinarsi alla lezione monteverdiana. Ci spiega, in parole semplici, in cosa consiste la novità introdotta da Grancini? In particolare, come sottolineato sulla copertina del CD, riguardo i concertati all’organo «all’uso moderno»?
Scrivere musica polifonica dopo che Claudio Monteverdi e suo fratello Giulio Cesare, nei primi anni del Seicento, avevano messo a confronto «la prima pratica», nella quale «l’armonia (ovvero il contrappunto) è padrona dell’oratione (della parola intonata)», e «la seconda pratica», nella quale, viceversa, «l’oratione è padrona dell’armonia», voleva dire abbandonare il primato della scrittura contrappuntistica d’ascendenza palestriniana sulla comunicazione espressiva del testo e porre al centro dell’atto creativo la «parola» declinata in tutta la sua forza rappresentativa. Da quel momento, rendere il suono della parola per il tramite sonoro della musica, diventa la via maestra da seguire per ogni compositore che desideri rendere sempre più profondo lo iato fra lo stile polifonico cinquecentesco e il nascente stile concertato d’ascendenza monteverdiana, conformato «all’uso moderno».
Questo disco racchiude «Messa, salmi, motetti, magnificat & letanie dedicate alla Madonna», pertanto brani specifici per le funzioni liturgiche o per i momenti devozionali. Che importanza rivestiva, al tempo, la musica nell’ambito delle funzioni religiose?
Dei luoghi nei quali si faceva musica nell’Italia barocca (scuole, case dei musici, case nobiliari, palazzi principeschi, oratorî, chiese, en plein air), la chiesa era certamente il locus amoenus, il luogo privilegiato, non foss’altro per il ruolo che l’istituzione ecclesiastica svolgeva nella promozione dell’arte in generale e della pratica musicale, in particolare. Non vi era celebrazione liturgica di una certa importanza che non richiedesse un adeguato apparato musicale atto a renderla ancor più solenne. Le guide turistiche delle grandi città del tempo (si pensi a Venezia, a Bologna, a Firenze, a Roma, a Napoli) non lesinavano spazio per segnalare l’esecuzione di nuove musiche nelle chiese più rappresentative, reputate attrazioni di primaria importanza.
Di qui la quantità impressionante di musica per il servizio liturgico (Messe, Vespri, Compieta, Te Deum, Processioni, Triduum sacrum e tant’altro), che veniva composta dai responsabili delle cappelle musicali, in perenne rivalità fra loro. Si pensi, ad esempio, alla rocciosa conflittualità esistente, a Bergamo, fra la cappella musicale di Santa Maria Maggiore e quella del Duomo; o a Ferrara, fra le analoghe compagini dell’Accademia dello Spirito santo, della Morte e del Duomo.
Oggi, alla domenica, si corre allo stadio per veder giocare la squadra del cuore; nel Seicento, si andava in chiesa per partecipare ai fasti di celebrazioni che destavano su coloro che vi assistevano incontenibile «stupore et maraviglia».
Lascio al lettore valutare la differenza di livello qualitativo fra le due opzioni …
Dicevamo che Grancini fu influenzato da Monteverdi. Non è un caso che il disco sia stato registrato proprio a Mantova, nella chiesa di corte, presso la quale il Divin Claudio lavorò per lunghi anni. Un luogo da lei privilegiato come «studio di registrazione» per la sua acustica eccezionale, della quale già abbiamo parlato in passato. In questa circostanza, Mantova costituisce un filo rosso tirato a congiungere i due musicisti…
È proprio così. Bisogna vivere l’emozione che si prova cantando e suonando sotto le mirifiche volte della basilica di Santa Barbara per comprendere l’incommensurabile unicità di questo luogo, caparbiamente voluto dal duca Guglielmo Gonzaga, nel 1562, e che da più di quattrocentocinquant’anni segna la vita musicale mantovana. Se non da contatti diretti, Grancini e Monteverdi sono uniti dal comune sentire in musica, con la differenza che il maestro milanese non poté esprimere appieno la propria arte, per le ragioni che abbiamo visto, così come invece poté fare il «divino Claudio», il quale, attraverso la sua lunga e operosa esistenza lasciò la sua indelebile impronta nella musica del suo tempo, rivoluzionandola da capo a fondo.
La riconoscenza mia, di Ivana Valotti e di tutti i componenti della Nova Ars Cantandi verso monsignor Giancarlo Manzoli e la dottoressa Licia Mari che ci assistono e ci sostengono in ogni registrazione che realizziamo nella basilica gonzaghesca, è sconfinata.
Lo stile moderno di Grancini, come poc’anzi accennato, si è manifestato anche nel rinnovamento dello stile polifonico volto a privilegiare l’espressività. Innanzitutto, ci spieghi, gentile maestro Acciai, in cosa consisteva, per Grancini, l’espressività? E come, il significato della parola liturgica si innestava sull’eloquenza musicale?
Il valore della sua arte – l’ho già detto prima, ma mi preme ribadirlo ancora – sta nella piena aderenza al comandamento monteverdiano che voleva la musica «serva dell’horatione». In Grancini, tale asservimento non avviene in forma meccanica e acritica, ma nella consapevolezza, ben testimoniata in tutta la sua opera, che la parola è già canto e il canto assolve non solo una funzione musicale, ma soprattutto una funzione di rappresentazione dell’espressione e dei sentimenti che la parola intonata in sé racchiude.
Con la sua arte raffinata, Grancini è davvero capace di rendere la specifica intenzionalità espressiva di ogni singola parola racchiusa nella trama polivoca con un ductus melodico appropriato, consapevole del fatto che la parola intonata possiede una sua pulsazione autonoma, un suo battito cardiaco, un suo ritmo peculiare, insito nelle sillabe e negli accenti che la compongono.
Tra gli esecutori, dei quali parleremo tra qualche riga, si cela anche un tecnico del suono, che ha personalmente curato la registrazione. La domanda è ovvia e la risposta intuitiva ma vorremmo che ce la dettagliasse: perché preferire un musicista a un tecnico specializzato?
Perché un musicista del valore e del talento di Jean-Marie Quint, violoncellista e musicista di straordinaria bravura, che realizza ogni registrazione della Nova Ars Cantandi è un valore aggiunto per la migliore riuscita del risultato finale. Saper di avere dietro ai microfoni una mente musicale come quella di Jean-Marie Quint, capace di cogliere ogni dettaglio, di saper rilevare la più piccola imperfezione tecnica, è una garanzia assoluta per l’esecutore; un privilegio che pochi altri possono vantare. E la differenza fra un musicista che è anche un eccellente tecnico del suono e un semplice tecnico del suono, si sente. Eccome se si sente.
Lei è alla testa di un «pool» di musicisti ultra affiatato, iniziando da Ivana Valotti che in questo CD siede all’organo. Un compito impegnativo e significativo dato che l’usanza del tempo era di codificare una «base» sulla quale l’organista soleva improvvisare. Una pratica portata avanti ancora oggi?
Oltre a essere una straordinaria concertista, una virtuosa dello strumento come poche sulla ribalta internazionale, Ivana Valotti è una «continuista» di rara bravura. Ogni sua realizzazione della parte del «basso continuo», ovvero della linea melodica più grave, sulla quale si appoggia l’ordito polivoco delle musiche eseguite, è un’opera d’arte a sé stante. Mi piace qui riportare il pensiero di Ivana Valotti, quando afferma che «nella realizzazione di ogni basso continuo da me realizzato, ricerco sempre il movimento cantabile delle parti e una trama polivoca a tre parti. Tale scelta, non soltanto mi permette una maggiore libertà di conduzione delle parti stesse, ma mi agevola anche nella ricerca di un accompagnamento sempre “cantabile” e non invadente. In altre parole, cerco costantemente di creare una impalcatura sonora utile a sostenere le voci sia in senso ritmico sia in senso armonico e di essere per loro un sicuro punto di riferimento senza però confonderle mai».
Nel CD dirige il Collegium vocale et instrumentale «Nova ars Cantandi», da lei fondato anni or sono e col quale vanta un affiatamento osmotico. Quale formazione dell’ensemble è stata utilizzata in questa incisione?
Per la registrazione dei Novelli Fiori Ecclesiastici di Grancini ho utilizzato la formazione «classica» dell’ensemble, quella a quattro voci e organo, con Alessandro Carmignani, a sostenere la parte del Cantus; Andrea Arrivabene, quella dell’Altus; Gian Luca Ferrarini, quella del Tenor e Marcello Vargetto, quella del Bassus. La scelta, poi, di affidare a un quartetto vocale, composto interamente da voci maschili, le linee dell’ordito polivoco, non deriva da una decisione personale, dunque, del tutto opinabile, ma dal rispetto di norme teoriche ed ecclesiastiche, sancite da secoli di tradizione esecutiva, cristallizzate nei decreti della Chiesa di Roma che stabilivano, fin dai tempi del Sinodo di Laodicea (364 d. C.), che «taceat mulier in ecclesia; absit mulier a choro» (taccia la donna in chiesa; non canti in coro). Oltre a ciò, bisogna anche tener conto che l’assetto paribus vocibus è quello ideale per ottenere equilibrio e omogeneità timbrica dell’insieme vocale, altrimenti compromesso con l’affidamento delle parti di Cantus e di Altus a voci femminili.
Quindi: storia sì, acustica anche, specifiche scelte per la «cattura» delle tracce registrate, precisione esecutiva, rispetto per la prassi antica. Al di là dello studio, della tecnica, del valore degli interpreti, ciò che colpisce in questo nuovo CD è la sfolgorante bellezza del suono. Del quale beneficia anche la musica, da lei riportata allo splendore della sua originalità senza snaturarla con una mediazione contemporanea, nondimeno innestandovi la sua peculiare sensibilità direttoriale. Non facile a dirsi, ancor meno a farsi. Infatti, accade di sovente che quando un dato interprete si vanta del rispetto usato con l’autore, di solito l’esecuzione risulta noiosa, opaca o addirittura polverosa. Lei invece, gentile maestro Acciai, ha la capacità di rendere vivi i colori, di infondere vita e palpito alle note calibrando le dinamiche, gli accenti, i «respiri» delle voci. Il pubblico odierno si ritrova proiettato in un vero e proprio viaggio nel tempo per riascoltare sonorità antiche che paiono assolutamente moderne. Senza entrare in dettagli da addetti ai lavori, come ci riesce? Quali elementi privilegia quando sale sul podio?
L’interprete moderno deve essere consapevole del fatto che la musica vocale del passato non potrà mai essere restituita nella sua più intima dimensione espressiva, riproducendo soltanto ciò che il testo originale tramanda. Quanto sta scritto sulla pagina di un manoscritto o di una stampa dell’epoca rinascimentale o barocca, non è la musica di quell’epoca. È soltanto il suo simulacro.
Non si deve infatti dimenticare che la musica che giunge a noi dal passato nella sua notazione originale non trasmette (e non intende trasmettere!) tutto ciò che il compositore avrebbe potuto comunicare. Trasmette soltanto l’essenziale, sulla base di canoni estetici ben consolidati, in auge nei secoli a noi lontani.
Eseguire unicamente ciò che sta scritto sul testo originale, come purtroppo molti esecutori ancor oggi fanno, è tradire appieno il pensiero del compositore.
Interpretare significa appropriarci di qualche cosa che non ci appartiene e di farla nostra. Una cosa è leggere i Novelli Fiori di Grancini senza coinvolgimenti emotivi; un’altra cosa è riuscire invece a far scaturire da questa musica l’intima poesia che in essa si cela.
Non può esservi interpretazione senza fantasia. Per chi la possiede, la fantasia apre mondi sconosciuti, svela orizzonti di abbagliante bellezza. Ma lascia coloro che di fantasia ne hanno poca o non ne hanno affatto, nello sgomento della normalità.
Intervista di Maria Luisa Abate
Agosto – settembre 2024
Immagine di copertina: Giovanni-Acciai © Andreas Kikrdjakin
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