Di Maria Luisa Abate. Arena di Verona: unitarietà al capolavoro di Orff con Michele Spotti sul podio di Orchestra e Coro areniani.
Sul finire della Stagione estiva hanno fatto ritorno al 101° Opera Festival all’Arena di Verona i Carmina Burana, proposta molto amata dal pubblico che anche quest’anno l’ha premiata con un sold-out.
Come già abbiamo avuto occasione di ricordare su queste colonne, Carl Orff attinse ai canti goliardici dei clerici vagantes del Basso Medioevo, scoperti presso la biblioteca del monastero bavarese di Benediktbeuern (anticamente Bura Sancti Benedicti), nel Codex Latinus Monacensis 4660 o Codex Buranus. Una raccolta poetica suddivisa in 112 fogli di pergamena decorati con miniature, contenenti 228 componimenti pare tutti destinati al canto ma di cui solo 47 riportanti la traccia musicale.
Carl Orff scelse 24 brani in latino, provenzale, alto tedesco medio, alcuni con termini maccheronici, per lo più inneggianti all’amore, al risveglio della natura e alle gioie della vita. Tra il 1935 e il 1936 – sotto al titolo “Carmina Burana: Cantiones profanae. Cantoribus et choris cantandae comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis” – Orff riadattò i testi innestandoli su una propria struttura musicale rifacentesi alla semplicità e alla bellezza del suono e del ritmo, e all’immediatezza della comunicazione.
La cantata scenica non possiede una trama, ma accosta i racconti seguendo la casualità di un giro della ruota della Fortuna imperatrix mundi, celebrata nell’apertura che cita la drammaticità del fato, e che viene richiamata anche in chiusura (oltre che nell’immancabile bis). Le canzoni profane inneggiano all’amore, alla goliardia, al destino, sono gioiose o scherzose o ancora scosse da turbolente inquietudini, e comprendono pagine di estrema vivacità ed altre pacate, con repentine alternanze dinamiche e coloristiche.
Sul podio dell’Orchestra dell’Arena di Verona, presentatasi in ottima forma oltre che in grande organico, è salito Michele Spotti, giovane astro già ultra-affermato che, all’inizio di Stagione, ha diretto Turandot tramessa da Rai Cultura. Con gesto estremamente preciso il direttore ha edificato sulle varie sezioni orchestrali una solida architettura d’insieme. Forse avrebbe potuto osare di più, pensiamo ad esempio al segmento ambientato in una taverna dove scorre il vino; pensiamo anche alle “imaginibus magicis” risultate forse troppo controllate. In ogni caso una linea stilistica condivisibile e meritevole di apprezzamento, come si diceva votata al risultato d’assieme, protesa a far scaturire un unico flusso di suggestioni.
Unitarietà che si sarebbe gustata maggiormente se non fosse stata frammentata dagli applausi al termine di ogni cantata. Ma va bene così, anzi benissimo. Come già abbiamo sostenuto in altre occasioni, l’Arena non è un teatro come gli altri e proprio in questo sta la sua “magia” (detto citando Orff). Anche il pubblico areniano è speciale ed è parte integrante, sostanziale, inscindibile, di ogni spettacolo. Al pubblico vogliamo noi rivolgere un applauso di gratitudine, a metà del nostro scritto.
Veniamo al coprotagonista (assieme all’Orchestra) della cantata, ossia al Coro dell’Arena di Verona, in una prova eccellente frutto della meticolosa preparazione curata da un fuoriclasse come Roberto Gabbiani. Grande il controllo emerso dall’imponente formazione, coesa e dal suono corposo, attenta all’intonazione come all’espressività venuta anche dal percepibile studio effettuato sul testo e sui suoi molteplici significati, oltre ovviamente che sulla musica. Una lode particolare, non per dovere ma per merito, ai due cori di voci bianche A.LI.VE. e A.d’A.Mus. diretti rispettivamente da Paolo Facincani e da Elisabetta Zucca che, posti ordinatamente in proscenio ai due lati dell’orchestra, hanno dimostrato una precisione e una puntualità encomiabili.
Petit gli interventi riservati da Carl Orff ai solisti, che Fondazione Arena ha scelto tra artisti di prim’ordine. A iniziare da Youngjun Park, cui il compositore ha assegnato la parte più consistente che richiede una vocalità duttile e multiforme, superata a pieni voti dal baritono, con la pienezza del timbro levigato.
Il controtenore Filippo Mineccia si è specializzato in tessiture impegnative come questa, da lui cesellata, come due anni or sono sempre in Arena, con grazia sicurezza e pulizia, senza sbavature.
Inoltre, la voce limpida e perfettamente controllata del soprano Gilda Fiume, che ha posto in risalto la parola ed è riuscita a entrare perfettamente nel “mood” di Orff e nel suo ricostruito Medioevo.
Nel finale, la ruota della Fortuna che determina i destini dell’umanità ha ripreso a girare inesorabile, accompagnata da due minuscoli sbuffi di fumo rossastro che, a essere sinceri, hanno fatto rimpiangere taluni effetti di grande impatto visivo ammirati in passato. Quest’anno i giochi di luce si sono concentrati su alcune “lame” incrociatesi nel cielo sopra il palcoscenico, minimaliste: less is more, come sosteneva l’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, appropriandosi di un detto le cui origini risalgono alla Grecia antica. Detto sul quale noi non siamo sempre d’accordo. Visto che l’Arena di Verona sta recuperando un rapporto proficuo con il Corpo di Ballo, ci auguriamo in futuro di poter assistere a una versione dei Carmina Burana con accompagnamento di mimi e coreografie, come altrove in passato è stato fatto con successo.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 1 settembre 2024
Foto Ennevi
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