Di Maria Luisa Abate. Mantova: analisi critica di Stefano Massini su Mein Kampf e la follia di Hitler.

Un libro di cui ancor oggi è difficile parlare, tuttora proibito in Cina e il cui possesso è reato penale in Austria. Ma non in Germania, dove è tornato di libera circolazione nel 2016. Da allora Stefano Massini ha iniziato a studiarlo, a decostruirlo, ad analizzarlo. «Un libro che oggi in Italia è libero ma non lo si può leggere perché noi abbiamo due diaframmi che impediscono l’approccio critico: il primo è l’orrore, il ricordo di Auschwitz. Il secondo è un altro meccanismo di blocco, che troviamo nel film “Il dittatore” di Charlie Chaplin, perché noi tendiamo a respingere con lo sberleffo, con la farsa. Sì – ha proseguito Massini – era un pazzo, uno svitato, ed è facile fare ironia sul suo modo di parlare mettendosi due baffetti. Questo ha impedito un accesso critico a ciò che invece andrebbe affrontato e studiato» perché l’assenza del volume contribuisce ad amplificarne la leggenda. «Bisogna conoscere le cose che fanno paura. Solo la consapevolezza può aiutare a capire cosa sia questo libro».

Stefano Massini si è soffermato più volte a raccontare quante accuse abbia ricevuto per aver affrontato questo argomento con giudizio critico nel suo libro “Mein Kampf. Da Adolf Hitler”, in cui ha preso la narrazione spietata interpolandola con altri materiali. Laureato in lettere antiche all’Università di Firenze, “apprendista” al Piccolo Teatro di Milano con Ronconi, scrittore e drammaturgo, ha all’attivo testi teatrali e pubblicazioni editoriali di successo in Italia e all’estero. Vincitore, tra l’altro, di cinque Tony Award (otto candidature) è lo scrittore italiano vivente più rappresentato al mondo, tradotto in oltre 24 lingue. 

Era ultra affollata piazza Castello a Mantova, nell’appuntamento di Festivaletteratura che ha visto gli stimoli al dialogo venuti dal giornalista Marco Damilano. L’incontro è iniziato partendo da un inquadramento storico per cercare di capire come un modesto imbianchino psicopatico abbia potuto avere una tale presa sulle folle e assurgere al potere.

Mein Kampf fu scritto, battuto a macchina, da Hitler in carcere a Landsberg, dove passò otto mesi, e fu elaborato con Hermann Hesse. Era un’opera molto voluminosa, scritta male e che costava molto. Tuttavia gli storici sostengono che Hitler se ne fosse arricchito perché, col progredire della carriera politica, ne vendette milioni di copie, fu regalato alle coppie, ne uscì una versione in braille…

“Non voglio diventare un impiegato, io temo la nullità, l’irrilevanza”. Massini ha indagato la psicologia collettiva di chi in questo testo si è identificato. «Il libro paradossalmente ci dice tantissimo. Non è solo una riflessione politica ma anche una riflessione sui libri, ed è giusto parlarne qui a Mantova, a Festivaletteratura». La storia del libro è essa stessa un’anomalia, ha sottolineato il relatore, spiegando che si tratta di «un autore giovane che mette per iscritto la sua visione del mondo, non a posteriori ma a priori. Il volume vide la luce nel 1925 e si componeva di due parti, di cui la seconda, di stampo tecnico, fu scritta «quando oramai il razzismo era sulla rampa di lancio». Quella che conta è la prima parte in cui Hitler a trent’anni ha dettato la sua autobiografia: «è l’epopea di un underdog, di un rifiutato» «Qui non c’è la destra e, opposta, la sinistra». Vi si trovano, ad esempio, strali verso Marx o verso Cristo. Ricorre, nelle pagine, il verbo “vedere”: io Hitler, vedo, ossia percepisco, quello che nessuno ha mai visto.

Anche Mao e Gheddafi, per citarne solo alcuni, dettero alle stampe i loro pensieri «Il libro è la chanson de geste del condottiero, del lider massimo. Ma Hitler lo fa prima. Cosa è, dunque, Mein Kampf? «È la storia di un ragazzo che è frustrato perché non riesce a garantire a se stesso di non finire a fare l’impiegato», ha continuato Massini. Poi c’è altro materiale impressionante, come le oltre settecento pagine delle cosiddette Conversazioni a cena con Hitler, che furono registrate, con i primi apparecchi dell’epoca, mentre il dittatore esponeva l’Hitler pensiero ai più devoti sodali.

Sorge spontanea una domanda: cosa ha permesso a questo tizio frustrato e psicotico di diventare Hitler? Massini risponde che aveva un dono: l’aver intuito prima di tutti quello che oggi è l’ABC della politica; quello che noi abbiamo consacrato come empatia, ossia la capacità di creare nell’altro la sensazione che si stia parlando di lui. Una capacità di comunicazione acquisita andando ad ascoltare conferenze e dibattiti e chiedendosi come mai il pubblico fosse annoiato. Hitler aveva capito come porre il seme «non nella testa ma nell’intestino» di chi lo ascoltava: una massa di bambini impauriti che erano portati a pensare “Lui si fa carico delle sorti dell’umanità. E della mia”.

Sarebbe sbagliato leggere Hitler seguendo le liturgie della politica odierna, che vive di convention, di dirette Facebook, di social. Allora non esisteva la “massa”. Hitler ha messo insieme tutti, di ogni provenienza o ceto sociale, facendone i propri ascoltatori e dando l’impressione di parlare a ciascuno di essi.

Questa, ha proseguito Massini, è una questione inerente «l’importanza delle parole che sono poi diventate un verbo politico. Poi, non prima». E ancora: «Questo è un libro sull’importanza delle parole». «Le parole sono fatti. Che possono, come in questo caso, muovere delle catastrofi»

Freud rispose ad Einstein che gli chiedeva come mai l’essere umano continuasse a scegliere il conflitto come metodo per risolvere le divergenze, che in ciascuno di noi coesistono due forze istintive: Eros e Thanatos. «La scelta sta a noi» ha concluso Stefano Massini: viviamo in un periodo di totalitarismo, in cui chi arriva secondo non ha diritto di parola. Viviamo nell’ «azzeccagarbuglismo» del dialogo. «Bisogna scegliere le parole giuste, perché è tale scelta a fare la differenza»

Report di Maria Luisa Abate
Visto in Piazza Castello a Mantova, Festivaletteratura, il 5 settembre 2024
Foto MiLùMediA for DeArtes

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