Di Maria Luisa Abate. Mantova: Joël Dicker e l’animale interiore che c’è in noi.

Un altro brivido jazz ha corso lungo Festivaletteratura. Questa volta non composto da note ma inteso come ritmo di scrittura, d’azione, che parte lento – in 5/4 specifica lo stesso autore – e poi si scatena. È un ex batterista, ha studiato recitazione ed è stato in parlamento, il romanziere ginevrino Joël Dicker, che a Mantova ha tenuto un intervento in lingua francese. Non si è parlato della trama del suo ultimo giallo “Un animale selvaggio” perché si sarebbe generato un gigantesco spoiler.  E nemmeno si è parlato dello stile narrativo di Dicker, basato su intrecci e balzi temporali, su colpi di scena, sullo spessore psicologico dei personaggi. Si è invece approfondito il concetto che sta alla base di questo thriller letterario, partendo dal titolo.

«L’animale selvaggio rappresenta quello che arriviamo a essere quando siamo connessi con noi stessi». Siamo sempre collegati con gli altri attraverso i social, ha spiegato l’autore, meno con il nostro essere. «L’animale selvaggio siamo noi prima dell’evoluzione». L’istinto, ha proseguito Dicker, è uno strumento straordinario con cui veniamo al mondo e ci pone in rapporto con i genitori: l’istinto può spingerci a fare cose che la famiglia non approverebbe. «Se l’istinto c’è, va seguito». Tutti abbiamo un animale selvaggio dentro di noi e quando lo ascoltiamo stiamo bene, perché siamo noi stessi, L’animale selvaggio è quello che davvero siamo anche quando, con amici e conoscenti, «interpretiamo la commedia della vita».

Il libro comprende quattro personaggi diversi, divisi tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere. Col tempo le persone cambiano e si pongono una serie di domande: “Piacerò agli altri?” “Sono pronto ad accettare me stesso?” “Sono pronto ad amare me stesso nonostante ciò che potrebbe accadere?” “Gli altri mi accetteranno, nel cambiamento?”.

Circa il suo animale interiore, Joël Dicker ha detto di pensarsi come un uccello migratore per la capacità di muoversi nello spazio. «Preferisco identificarmi in ciò che non sono: non mi pace viaggiare e soffro di vertigini, ma la migrazione mi dà l’idea di poter trasmettere qualcosa ai nostri figli».

Il presente, ha proseguito lo scrittore svizzero, non è molto interessante. Lo è invece il futuro, che reca in sé un’idea di speranza, di fantasia. Il passato è interessante, ci incuriosisce, ci consente di andare indietro nel tempo e riconsiderare la prima impressione che ci eravamo fatti di un individuo appena incontrato, che magari era negativa perché siamo assoggettati a dei cliché.

“Come è la giornata tipo di lavoro di Joël Dicker?” Ha chiesto l’interlocutrice Alessia Gazzola. «Nell’immaginario scrivere non è un lavoro» ha risposto ridendo il romanziere. «Io lavoro in ufficio perché a casa ho moglie e figli e magari mi viene chiesto di fare il bucato, “cosa ti costa, sei lì che non fai niente…”. Sono certo che se facessi il contabile mia moglie direbbe ai bambini di stare zitti perché papà sta lavorando. Mi sveglio prestissimo, verso le 4 perché sono più ispirato e scrivo fin verso le 8. Poi vado in studio e scrivo fino alle 12. Il pomeriggio lo riservo alle interviste e alla mia casa editrice. E mi viene detto che quindi lavoro mezza giornata part-time…»

«Sono ossessionato dalle cose che non mi sono venute: mi resta la sensazione di riuscirci nel prossimo libro. Le imperfezioni che colgo nel libro che ho appena terminato di scrivere mi spingono a scrivere il successivo».

«Nutro la speranza di riuscire, pian piano, a scrivere libri più brevi» Dicker spiega che ci sono così tanti colpi di scena che a volte si trova a dover ricapitolare. Si rivolge alla platea mantovana: «Dopo 12 anni mi fido del lettore. Io non dico niente ma voi la scena l’avete vista. Siete voi a fare tutto. È l’immaginazione a fare tutto».

Report di Maria Luisa Abate
Visto in piazza Castello a Mantova, Festivaletteratura, giovedì 5 settembre 2024
Foto MiLùMediA for DeArtes

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