Il dramma giocoso Don Giovannidi Mozart possiede la particolarità di avere due finali: la versione praghese e quella viennese, contenente una morale positiva l’una, una conclusione drammatica l’altra. Il lieto fine, se così si può definire il presente caso in cui la gaiezza ha assunto risvolti inquietanti, è stato prescelto per la nuova produzione di Fondazione Arena di Verona che ha ufficialmente inaugurato la stagione al Teatro Filarmonico. Il titolo ha sostituito l’atteso Mefistofele caduto sotto la scure della spending review. Ma andare avanti con proposte di qualità è la sola caratteristica ad avere importanza.

Durante l’ouverture, un accenno metateatrale con figuranti di bambini, tecnici e maestranze a prendere le ultime direttive. La trama di Da Ponte ha avuto inizio sotto un acquazzone con lampi e tuoni, un destino incombente materializzatosi sotto forma di fenomeno meteorologico, o di lune gigantesche di veritiero pallore oppure simili ad astronavi sferiche costellate di lucette. Stipiti vuoti hanno suggerito passaggi verso un altrove che tutti i personaggi hanno frequentato. Presenze attestanti un cosmo connesso con l’al di là, con il mondo dei trapassati che, nell’opera mozartiana, si risveglia per interagire con i vivi.

Ha giocato sulle precognizioni Enrico Stinchelli, celebre critico radiofonico, direttore artistico e saggista, fine cultore del melodramma. La sua regia ha attinto l’estetica alla tradizione più classica e la concretizzazione alla tecnologia del video mapping. La descrittività è stata affidata a proiezioni dinamiche (visual design Ezio Antonelli e lighting design Paolo Mazzon) che hanno reso la scena partecipe alla vicenda, fino a diventare a poco a poco essa stessa personaggio. Le immagini sono state proiettate su velari collocati a varie profondità e il movimento filmato ha simulato il calare e sollevarsi e scorrere di quinte e fondali, quasi fossero stati manovrati manualmente con funi come nel centenario modo di fare teatro: è stata questa l’intuizione più bella tra le tante belle dell’allestimento.

Una serie di quadri sospesi a mezz’aria ha formato una pinacoteca soprannaturale. Come tanti ritratti di Dorian Gray, i dipinti hanno assunto le fattezze del dissoluto protagonista, capace di scatenare le voglie amorose delle donne e di far desiderare al suo servo Leporello di vivere analoga esistenza. I costumi (Maurizio Millenotti)eranopresi a prestito dal magnifico Don Giovanni di Zeffirelli andato in scena in Arena e definiti da Stinchelli una “garanzia di bellezza e di rispetto”.

Il desco predisposto per ospitare il Convitato di pietra (nella proiezione, avente gli occhi fiammeggianti e un copricapo vagamente napoleonico) – ossia la statua del Commendatore ucciso da Don Giovanni uscita dal cimitero per trascinarlo nell’abisso infuocato della dannazione eterna governato da un’avvenente pipistrellessa – era apparecchiato con vivande/donne, non più prede ma famelici divoratrici dell’immorale libertino. Il finale di Stinchelli non ha visto il dissoluto punito (titolo originario) bensì beffardamente vittorioso, anche sulla morte. Tornando alla citazione di Dorian Gray, il fondale ha rimandato a tutto campo un’immagine del seduttore intento, come un burattinaio, a muovere i fili dei personaggi e infine, con una risata di dileggio, a tagliarli facendo cadere tutti al suolo inanimati.

Per la prima volta a Verona, e per la prima volta impegnato in questo titolo, Renato Balsadonna ha condotto l’orchestra areniana su una linea prudente di correttezza formale e stilistica, accompagnando egli stesso i recitativi al clavicembalo. Il ruolo del titolo è generalmente destinato a un baritono o a un basso-baritono. Andrea Mastroni ha gestito al meglio la sua vocalità robusta e profonda, rotonda e levigata, con esiti eccellenti. Disinvolta la presenza scenica, a delineare efficacemente Don Giovanni dai modi eleganti e arido interiormente, pieno di sé e incapace di veri sentimenti.

Con voce limpida, omogenea nella linea di canto e con acuti che sono diventati di incisiva espressività nel declinare i colori drammatici mozartiani, Laura Giordano ha tratteggiato Donna Anna dibattuta tra l’istinto di vendetta e il fascino esercitato dall’uccisore del padre. La sedotta e abbandonata ma non rassegnata Donna Elvira era Veronika Dzhioeva, dal timbro scuro che ha assunto interessanti sfumature nei registri medio alti. Una lezione di garbo, di agilità, di lucentezza è venuta da Oreste Cosimo, Don Ottavio.Biagio Pizzuti attento all’interpretazione e ai chiaroscuri, ha svolto una prova all’insegna della raffinatezza stilistica, interpretativa e attoriale nei panni di Leporello. Bel colore timbrico e dizione estremamente intelligibile per Davide Giangregorio, Masettodalcarattere schietto. Barbara Massaro aveva la freschezza appropriata per Zerlina, la quale ha reagito al tentativo di seduzione con fare da gatta morta. Possenti i mezzi canori di George Andguladze, che la regia ha voluto amplificati nell’intervento conclusivo del Commendatore.Incisiva la prova del Coro preparato da Vito Lombardi.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 3 febbraio 2019
Foto Ennevi, per gentile concessione di Fondazione Arena di Verona