Di Maria Luisa Abate. Busseto, Festival Verdi: Ballo dark e onirico, grottesco e ironico, significante.

Una messa in scena coerente con se stessa e prima ancora con Verdi, ammaliatrice dal punto di vista visivo e stimolante alla riflessione. Un cast formato da voci bene assortite e di notevole caratura nonostante la loro giovane età. Il Festival Verdi mantiene alto il proprio livello qualitativo anche quando esce dalle sontuose mura del Teatro Regio di Parma e si trasferisce a Busseto. Molti teatri italiani sono di piccole dimensioni e vengono definiti “bomboniere”, ma la sala di Busseto è più piccola del piccolo, tanto che lo stesso Verdi giudicò la sua costruzione un inutile spreco di denari. «È una casa delle bambole» ha detto, estasiata, una signora nel palchetto accanto al nostro. È un luogo unico che sprigiona un fascino unico, dove le esperienze inconsuete ed entusiasmanti sono la regola. In questo gioiellino abbiamo applaudito Un ballo in maschera secondo la visione registica di Daniele Menghini a dare corpo a un nuovo allestimentorealizzato in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna e Fondazione Rete lirica delle Marche.

Dopo il volo di un palloncino solitario lungo il proscenio, il sipario si è aperto sugli esiti di una festa, con gli invitati addormentati ubriachi o stremati dai vizi. Tra di essi, ve n’era uno appisolato sul trono con sul capo una corona sghimbescia. Il regista infatti ha evocato il contesto originario che Antonio Somma, rifacendosi a Eugène Scribe, aveva ambientato alla corte di Gustavo III Re di Svezia, prima che la censura dell’epoca imponesse a un sempre più esasperato Giuseppe Verdi un’infinita serie di modifiche concluse nella trasformazione del protagonista nel governatore di una colonia inglese in America.

 Menghini ci ha presentato il Ballo in maschera come condizione idealizzata e perenne, come stile di vita: dissoluto, licenzioso, irriverente ma anche ironico e onirico, esaltazione degli eccessi per quanto registicamente di bilanciata misura (sparuti gli scivoloni nel too much). L’atmosfera gotica, dark, si è giocata sul contrasto tra nero e oro (luci di Gianni Bertoli) sotto il volo di puttini alati che hanno indossato maschere a mo’ di teschi. Qualche astuto escamotage ha permesso di vivacizzare la scenografia giocoforza fissa (di Davide Signorini), in primis il trono /botola passato da scranno regale a porta di accesso per fiammeggianti inferi nell’antro della maga, poi a vassoio atto a reggere una testa dagli occhi roteanti nell’ “orrido campo”, infine a scultura pop-art fatta di teschi impilati.

Gender free i costumi (di Nika Campisi) sei-settecenteschi gradevolmente ibridati con elementi moderni, alternati ad anime perdute seminude cinte da imbracature di pelle, a diavoloni dal becco di uccellacci, a congiurati in smoking, fino a Renato in completo giacca e cravatta che lo ha reso visivamente un estraneo rispetto alla varia umanità che affollava la corte crogiuolo di piaceri. Figure inquietanti o ironicamente grottesche. Significativa la scena in cui, cedendo al richiamo del cuore, Amelia, moglie di Renato ma innamorata di Riccardo, è stata cinta da un mantello nero mentre il suo volto veniva tinto di biacca a suggellare l’abbandono di quello che fino a quel momento era stato il suo mondo, e l’ingresso in un nuovo contesto. O ancora il ballo conclusivo, in cui Riccardo, conquistato il cuore della donna bramata, ha indossato un abito matronale.

La regia ha miscelato sapientemente il carnevale veneziano con le sue maschere paurose e il Rocky Horror Picture Show, il Grand-guignol e i Pirati dei Caraibi, Halloween e i balli di gruppo stile Gioca jouer. Descrizione questa nostra che potrebbe far pensare a una sovrabbondanza confusionaria di spunti, mentre invece così non è stato. Al contrario, il regista ha tenuto tutto perfettamente sotto controllo, portando avanti la sua idea con coerenza, come si diceva sia personale che verdiana, e anche con gusto.   

Tra bottiglie alcooliche bevute a collo e distribuzione di innocue lattine di Coca Cola, due (e solo due) palloncini sono stati fatti scoppiare con forchettate, a ricordare la volatilità dell’amore, la brevità e vulnerabilità della vita, in un incitamento a consumare bulimicamente i piaceri terreni. Non una semplice festa mascherata, quindi, ma per Menghini un Ballo in maschera inteso come danza macabra della vita che presto o tardi deve fare i conti con il mondo sotterraneo oscuro e spaventoso della morte.

Una menzione speciale va alla stupenda figura della maga Ulrica, una vecchia dai capelli grigi e radi, dagli occhi dall’iride bianca, spiritati o forse ciechi (come tradizione della letteratura classica vuole per gli indovini), abbigliata con un sontuoso abito barocco dal grande colletto a gorgiera. È entrata con passo incerto, si è seduta su una poltrona in velluto e ha iniziato a fumare una sigaretta (detto per inciso, a riprova della cura registica per i dettagli, alcune sigarette di scena, quando aspirate, mostravano la brace illuminarsi di rosso, altre di verde), per poi rivolgersi con fare shakespeariano a un teschio in cui noi abbiamo letto un richiamo subliminale a una sorta di “essere o non essere”, alla grande domanda sulla vita. Il regista infatti ha elevato Ulrica a personaggio chiave, come se le dissolutezze, gli spiriti gaudenti, le anime perdute, le presenze terrifiche fossero frutto dei suoi magici sortilegi.

Il golfo mistico è anch’esso bonsai, pur espanso fino a “pestare i piedi” alle prime file di poltroncine. Vi hanno trovato posto una trentina di elementi dell’Orchestra Giovanile Italiana che hanno portato una ventata di freschezza all’esecuzione. Sul podio è salito Fabio Biondi, il quale nelle sue lunghe note ha ricordato come in passato fosse pratica comune ridurre il numero degli orchestrali per abbassare i costi. Il difficile sta nel salvare le autentiche sonorità verdiane, risultato qui raggiunto grazie anche alla dimestichezza del direttore con repertori antichi e pertanto destinati a contesti cameristici. Biondi, discostandosi dalle tinte noir prescelte dalla regia, è andato alla ricerca di una variegata gamma di colori, tragici o pastello, che non sempre hanno acquisito il necessario smalto. La ricchezza timbrica della partitura è stata subordinata alla correttezza d’approccio al costrutto, alla ricerca di quell’intesa tra buca e palco che in questi spazi mignon si fa compenetrazione, condizionando anche le scelte dinamiche, effettuate con accortezza.

Il cast vedeva una larga presenza di allievi ed ex allievi dell’Accademia verdiana di Alto perfezionamento; tutti giovani esordienti nei rispettivi ruoli, padroneggiati con maturità musicale e attoriale, anche se un margine di crescita sussiste sempre.   

Per due sole recite (siamo lieti di avere scelto una di queste date) Riccardo con la corona di Re Gustavo era il tenore Davide Tuscano, efficace nel cavalcare gli intendimenti registici restituendo una figura baldanzosa e dissoluta. Ben centrato e incisivo vocalmente, timbro suadente e ricco, capace di alternare morbidezza a robustezza di tenuta.  

L’antagonista Renato, postosi già dall’abito come elemento estraneo alla variegata umanità di corte, era il baritono Lodovico Filippo Ravizza, dalla linea stilistica elegante e gestita al meglio, con cura per la dizione e l’espressività e sfoggio di un bagaglio canoro di tutto rispetto.

Il soprano Caterina Marchesini, una Amelia dolce e remissiva, ha dispiegato voce limpida, denotando a tratti un timore esecutivo che non aveva ragione d’essere e che ha acquisito sicurezza nell’emissione, aggiuntasi a una dotazione importante di mezzi. Ci ha particolarmente entusiasmato Licia Piermatteo dalla vocalità sopranile chiara e agile tanto da potersi permettere alcune variazioni portate a compimento in modo eccellente e con intonazione perfetta; ha dato al paggio tuttofare Oscar un’appropriata petulanza unita alla sincerità di sentimento.

Come accennato poc’anzi, per Ulrica è doveroso aprire un discorso a parte. Perché agli applausi innegabilmente rivolti alla visione registica che Danbi Lee ha m.a.g.n.i.f.i.c.a.m.e.n.t.e fatta propria, si sono sommate le esternazioni entusiastiche per la caratura del mezzosoprano sudcoreano, per la voce lussureggiante, pastosa, rotonda in ogni registro. Magnetico il canto al pari della presenza scenica: Danbi Lee ha avuto l’intelligenza, e la capacità tecnica, di emettere la voce come se fuoriuscisse dal profondo, da una interiorità ultraterrena “pescata” nella parte più interna del diaframma. Una interpretazione memorabile nella sua interezza.

Una lode va tributata ai congiurati Agostino Subacchi, Samuel e a Lorenzo Barbieri, Tom, adeguati nel canto e ben differenziati nella resa scenica. Non da meno Giuseppe Todisco, Silvano, e Francesco Congiu, Ggiudice e Servo di Amelia. Encomiabile la prova del Coro del Teatro Regio di Parma, accuratamente preparato da Martino Faggiani.

Uno spettacolo il cui successo non era poi così scontato, pertanto di ancora maggior valore.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Verdi di Busseto (Parma) il 5 ottobre 2024
Foto © Roberto Ricci

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