Di Maria Luisa Abate. Parma, Festival Verdi – Ramificazioni: da Verdi a Schönberg a Nono e ritorno.

Una serata toccante che ha raggelato il sangue nelle vene ma anche infuso speranza. Un concerto in cui musica, voce e immagini hanno concorso a descrivere due tra gli episodi agghiaccianti che hanno costellato la Seconda Guerra mondiale. Una nuova rassegna che, nel suo primo appuntamento, ha teso un filo rosso a legare Verdi con Schönberg e Nono.

Nella stessa data in cui al pomeriggio è andata in scena a Busseto una recita di Un ballo in maschera (recensione vedi qui), il Festival Verdi (e noi con lui grazie al bus verdiano) si è spostato in serata a Parma all’Auditorium Paganini dove ha preso il via “Ramificazioni”, un ciclo concertistico nato con lo scopo di indagare l’eredità che Giuseppe Verdi ha lasciato alle successive generazioni di musicisti. Il programma infatti, prima di concludersi con uno stralcio del Maestro, ha presentato due tra le più famose composizioni di Arnold Schönberg (1874 – 1951) e di Luigi Nono (1924 – 1990), di cui ricorrono rispettivamente i 150 e i 100 anni dalle nascite.

In apertura, l‘oratorio A survivor from Warsaw (Un sopravvissuto di Varsavia) op. 46 per voce recitante, coro maschile e orchestra. La composizione, scritta da Arnold Schönberg in una decina di giorni e dedicata alla memoria di Natalie Koussevitzky moglie del grande direttore russo-statunitense, si riferisce a un giovane polacco scampato alla strage nel ghetto di Varsavia. La narrazione è stata affidata a uno specialista del repertorio contemporaneo, il britannico Christopher Lemmings, tenore qui con ruolo di voce recitante. Aiutati dalla traduzione scorsa sullo schermo (peccato per i refusi in quello che riteniamo potesse essere un traduttore online) gli ascoltatori sono stati travolti dall’intensità espressiva di Lemmings, dal suo timbro caldo capace di farsi, nella lettura “a tempo”, roco e graffiante, di tramutarsi in grido di dolore. L’esecuzione infatti, più che al tardo periodo stilistico di Schönberg cui appartiene questo brano, è parsa essersi ispirata agli anni giovanili del compositore che inventò la “sprechstimme”, ossia il modo per codificare nella partitura anche le intonazioni della voce narrante, che Lemmings ha magistralmente accentuato nei contrasti dinamici, nella dizione scolpita e dai contorni netti, nel cangiare del tono espressivo sempre mantenuto su un filo drammatico dall’impatto deflagrante.

Sul podio della valente Filarmonica Arturo Toscanini è salito il direttore francese Maxime Pascal, il cui gesto ha acquisito movimenti meccanici per scandire con esattezza i tempi di questa composizione dodecafonica ideata per accompagnare, e per l’appunto scandire, la parola. Pascal ha posto in risalto le densità di note e le dissonanze, la struttura ritmica che non concede tregua nemmeno nelle pause, nei silenzi sospensivi, interlocutori, e poi nei repentini crescendo. Fino al culmine conclusivo, quando il Coro del Teatro Regio di Parma, istruito da Martino Faggiani, ha intonato Schema Yisroël, invocazione al Dio d’Israele, preghiera in ebraico antico che ha aperto uno squarcio di speranza, di inscalfibile dignità dell’Uomo pur se tragica e terribile in quanto cantata da coloro che venivano condotti nelle camere a gas.

Il canto sospeso fu scritto tra il 1955 e il 1956, su testi tratti da lettere di condannati a morte della resistenza europea. In questa cantata per soprano, contralto e tenore solisti, coro misto e orchestra, Luigi Nono ha spinto in avanti la sua linea di ricerca, di sperimentazione, sconvolgendo ancor più i parametri consuetudinari del costrutto musicale, concentrandosi sulla variazione dei ritmi, sulle alternanze dei timbri, sui repentini mutamenti dinamici, ben evidenziati da Pascal sul podio.

Il Coro del Regio, sempre preparato meticolosamente da Martino Faggiani, ha affrontato una partitura assai impegnativa: la scrittura di Nono frammenta le parole o le sillabe del testo, ricomposto nella serialità dell’assieme e il cui valore fonetico ne potenzia il significato semantico, come ebbe a spiegare lo stesso Nono in una delle sue celebri lezioni di Darmstadt. Si sono aggiunte, con incisività icastica, le voci soliste del soprano Chantal Santon Jeffery, del mezzosoprano Katarzyna Otczyk, del tenore Raffaele Feo.

Il sovvertimento, in Nono, della coerenza routinaria che sarebbe spersonalizzazione dell’autore, ha virato in favore di una serialità che conferma la validità espressiva della dodecafonia. Un esordio puntillista, poi le stratificazioni e le condensazioni di note, il passaggio timbrico da strumento a strumento e da voce a voce, il sovvertimento dei canoni ritmici o il loro sfasamento, gli inspessimenti e gli assottigliamenti delle carature sonore, infine lo strabiliante sposalizio tra la dodecafonia e la polifonia in una esecuzione, di Orchestra, Coro e solisti, che il direttore Pascal ha improntato alla persistenza della tensione drammatica, cruda e tagliente.   

Una scrittura musicale, dunque, identitaria della riconquista del libero pensiero del compositore e di conseguenza dell’Uomo. Non a caso a Parma l’esecuzione ha trovato completamento sostanziale nella video installazione di Shirin Neshat, artista e regista di origine iraniana che vive e lavora a New York, e che era presente nell’auditorium parmense, alla fine sommersa da una valanga di applausi distribuiti equamente a tutti gli interpreti (per la cronaca: tra il pubblico qualificato era presente anche il Maestro Roberto Abbado che trascorse un lungo periodo accanto a Luigi Nono). 

Azzardiamo l’ipotesi che l’artista visiva abbia voluto ispirarsi, nella scelta del bianco e nero della pellicola, alle celebri tele identificative del “tempo” dipinte dal pittore Emilio Vedova, che fu grande amico di Luigi Nono. In ogni caso, la regista ha fatto propria e rafforzata l’intenzione del musicista di comunicare un messaggio, azzerando la distanza tra arte e fruitori dell’arte.

La traccia visiva ha presentato una sequenza di episodi descrittivi che, parallelamente a come accade nella musica di Nono, si sono addensati e diluiti, sgranati e sfumati, dispersi in pulviscolo e raggrumati in terra, in una conversione onirica della realtà. Quasi come se la poetica di Shirin Neshat volesse trasferire il focus dalla crudezza del tangibile verso una suggestione immaginifica del pensiero, l’unica via di fuga possibile dalla situazione angosciante e di paura vissuta dal soggetto protagonista del video, una giovane donna. Una situazione in cui l’essere umano si è ritrovato inabissato in una solitudine che ha acquisito consistenza liquida nel narrare la totalizzante segregazione interiore (conseguente a quella materiale) delle persone quando si trovano a tu per tu con il Male. Un climax poetico inteso come straniamento dall’asprezza della realtà, come unico possibile rifugio, se non salvezza, per l’umanità.

A chiusura del concerto, il confronto con la “ordinata” dirompente forza drammatica del Maestro Giuseppe Verdi, colui dal quale sono partite queste, e altre, Ramificazioni novecentesche. Hanno posto in risalto il valore e la pronta versatilità delle formazioni orchestrale e corale, con l’intervento del soprano Daniela Zerbinati, due movimenti tratti dai Quattro pezzi sacri: il pianto sommesso dello Stabat mater e la luce sfolgorante sprigionata dal Te Deum.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Parma, Auditorium Paganini – Festival Verdi – Ramificazioni, il 5 ottobre 2024
Foto  © Roberto Ricci

AVVERTENZA
È vietato pubblicare integralmente o parzialmente questo articolo o utilizzarne i contenuti senza autorizzazione espressa scritta della testata giornalistica DeArtes (direttore@deartes.cloud).
Per condividere questo articolo sui social è fatto obbligo di indicare il nome della testata giornalistica DeArtes e il nome dell’autore.