Di Maria Luisa Abate. Mantova: il pianoforte che canta nelle Songs del pianista armeno-americano.
È considerato uno dei maggiori pianisti al mondo. Sergei Babayan ha inaugurato la stagione concertistica 2024 Tempo d’Orchestra, che grazie a Oficina OCM anima gli inverni mantovani aggiungendosi alla kermesse di inizio estate, Trame Sonore. A rendere inusuale la serata, il programma riservato a una serie di “Songs”, canzoni, ben 35, che hanno restituito una folgorante mappatura della melodia dall’Ottocento ai giorni nostri.
Dopo un primo nucleo di lieder schubertiani eseguiti come un assieme, senza quasi interruzione tra un brano e l’altro si sono succeduti il romanticismo di Schumann o di Lizt, e gli echi messicani di Ponce. Poi i compositori naturalizzati americani, partendo dalle reminiscenze russe di Rachmaninov intervenuto con effetti armonici a omaggiare l’origine austriaca di Kreisler, presente con un valzer. L’Otto-Novecento è passato dai lieder giunti dalla Norvegia di Grieg al calore della Spagna di Albéniz, alla Francia lacustre di Fauré. Si è arrivati al pieno Novecento per sostare sotto un abete rosso della Finlandia di Sibelius e di nuovo ci si è spinti fino alla Spagna, catalana per le canzoni di Mompou e basca per una danza antica di Guridi; ancora, dalla Germania di Hindemith alla Francia di Poulenc per una dedica a Edith Piaf.
Nella Sala delle Capriate è proseguita la corsa a perdifiato sulla tastiera, esplosa nell’America di compositori resi celebri, ma anche in un certo qual modo depauperati del loro reale valore, dal grande schermo, come Gershwin, cui ha fatto eco Arlen, in due tra le canzoni più famose di Hollywood: Lady be good e Over the rainbow. Di nuovo un balzo verso l’Europa con il cantautorato d’oltralpe di Trenet e il contemporaneo londinese Reynolds. Su tutti, la presenza del “nume tutelare” Padre Komitas che tra Otto e Novecento, prendendo come punto di partenza la polifonia da chiesa, diede uno slancio significativo alla musica armena, le cui radici emozionali Babayan – nato in Armenia quando faceva parte dell’Unione Sovietica e poi trasferitosi a New York – porta ben presenti dento sé.
Quello che per iscritto pare un tedioso elenco, all’ascolto si è rivelato in tutto il suo fascino, noto e arcano, che non ha seguito un ordine d’esecuzione temporale o geografico. Babayan ha condotto il pubblico in uno zapping emozionale tra epoche e stili, riportato dalla fluidità di tocco del pianista all’essenza più autentica: una ricerca della pura e semplice bellezza estetica della melodia che, dalle specificità identitarie di ogni autore, ha assunto consistenza unitaria, come fosse un solo discorso musicale.
Un seducente torrente di note, sotto le dita focose ma mai nervose del maestro. Un flusso quasi ininterrotto di canzoni presentante un’unica arcata di respiro che ha sorprendentemente riscritto la consueta nozione di fraseggio. Songs in un vivace gioco di rimandi a dimostrare quanto i secoli, gli stili musicali, le diverse influenze territoriali dei compositori presentino sorprendenti punti di contatto. Complice in tale intento dimostrativo, il fatto che quasi tutti i brani siano stati presentati in trascrizioni che portano firme celebri, creando stimolanti intersezioni tra autori e dimostrando che la voce umana non è indispensabile alla melodia.
Densità di note che si sono raggrumate, si sono distese, si sono fatte sospese e sottili, solide oppure morbide. Senza quasi che si percepissero le difficoltà tecniche che stava affrontando, Babayan non ha dimostrato timore alcuno a rimarcare i volumi timbrici, posti in contrasto con le delicatezze, con la precisione di suono pulito ed emanante un tepore avvolgente e “terapeutico”. Babayan è passato da quella sensazione di dolore che spesso motiva tanto i compositori quanto gli esecutori, per condurre gli ascoltatori e giungere egli stesso a una condizione interiore di rasserenamento. Confermando così quella che in lui è la caratteristica predominante, ossia la capacità di far “cantare” il pianoforte, in questo caso un Bechstein, che Babayan ha eletto a voce, affidando allo strumento le parole che in questo concerto non sono mai state pronunciate eppure sono state nitidamente udite.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto a Mantova – Tempo d’Orchestra, Sala delle Capriate, il 10 ottobre 2024
Foto: MiLùMediA for DeArtes
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