Di Maria Luisa Abate. Parma, Teatro Regio, Festival Verdi: concerto-evento del direttore rock star della classica. Miriam Prandi solista al violoncello.

A volte ci si chiede quanto i fattori esteriori come una personalità carismatica dirompente, non è dato sapere se costruita ad hoc oppure spontanea, influiscano sulla fama raggiunta da talune star. Il dubbio è subito messo a tacere quando al physique du rôle si aggiunge una profondità che travalica la consueta definizione di valore artistico, cingendola di inediti vertiginosi significati. Teodor Currentzis, direttore tra i più celebrati e in egual misura discussi degli ultimi anni, è definito il rocker della classica perché scatena stuoli di fans idolatranti come accade solitamente su ben altri palcoscenici. Forse anche la discussione aperta che da sempre accompagna il cammino del Maestro, riguardante l’anticonformismo con cui intende la musica, ha anch’essa contribuito ad amplificarne la fama. Fatto sta che Currentzis è in assoluto il direttore di cui più si parla, uno dei più quotati, conteso dai più prestigiosi Teatri al mondo. Per la prima volta è giunto a Parma al Regio, ospite del Festival Verdi, in un concerto che si sapeva a priori avrebbe scritto una pagina nell’albo d’oro del Teatro che pur di divi e divine ne ha visti passare tanti. Del resto, ogni concerto di Currentzis è un evento destinato a restare nella memoria e, a questo punto della sua carriera, anche nella storia.   

Non è una nota di colore aver notato che il Maestro indossava pantaloni/leggins strech, funzionali alla ricerca di una espressività totale. Nel suo caso infatti sarebbe riduttivo parlare di gesto direttoriale. Currentzis dirige senza bacchetta e senza podio. A voler essere precisi anche senza spartito, che, poggiato sul leggio, è servito solo a essere ufficialmente chiuso. Currentzis dirige con tutto il corpo, che guizza e balza in testa all’orchestra in una sorta di danza da ape regina, saltella su immaginari tizzoni ardenti, si contorce come fosse posseduto, e lo è: dalla musica! Si dimena in un rituale da sciamano che, preda di isteria apparente raggiunge una dimensione ultraterrena, invisibile ai più ma nettamente percepibile da tutti. Il viso trasfigura in un caleidoscopio di espressioni, le mani sembrano scosse dall’elettricità e paiono immergersi al centro della formazione orchestrale per andare a pescare un suono che solo lui conosce. Tutto il suo corpo si riveste di musica, la assorbe, la metabolizza, la elabora traendola a forza, con gioiosa sofferenza, fuori dai consueti schemi e la rimanda, mediata con personalità deflagrante, tanto agli orchestrali quanto al pubblico. Il quale va in fibrillazione, cade in deliquio, raggiunge uno stato di trance che tramuta i concerti in riti collettivi guida da questo santone dalla personalità magnetica in grado di far impazzire le lancette di qualsivoglia bussola. Studio matto e disperatissimo, direbbe Leopardi, e il dono da extraterrestre di saper vedere nelle righe musicali ciò che è scritto con la stessa chiarezza di ciò che non è scritto.

Perché le mani del direttore possano trarre fisicamente i suoi personali pensieri dal fertile humus dell’ensemble strumentale è necessario qualcosa in più dell’affiatamento, del feeling, di una pura e semplice condivisione di intenti. Serve una compenetrazione di idee in un processo costante di osmosi. Non a caso Currentzis, greco che ha studiato in Russia, ha fondato in Siberia una sua propria orchestra (a dire il vero ne ha fondate due e una casa discografica): MusicÆterna è formata da un manipolo di numeri uno, da un battaglione di intrepidi agguerriti musicisti che, sfidando le convenzioni, hanno seguito fedelmente il loro condottiero nella vittoriosa impresa parmense. Partita da Giuseppe Verdi, la cui eredità sulle generazioni successive (e le ispirazioni passate) indaga la sezione del Festival intitolata Ramificazioni, spintasi fino a Dmitrij Šostakóvič, e comprendente nel mezzo Pëtr Il’ič Čajkovskij.

In apertura, l’omaggio verdiano con la sinfonia da La forza del destino. Frutto del rimaneggiamento che Verdi fece sull’opera, la sinfonia ha preso il posto del precedente preludio, sviluppando ancor più l’intreccio fra i temi, introducendone di nuovi e dando al costrutto una forma maggiormente articolata rispetto alla precedente. Currentzis è risalito alla matrice ideativa verdiana, alla sua potenza espressiva frutto del desiderio di innovazione, e con lucidità di veduta ha fatto proprio quel senso di drammaticità, di sospensione che vive l’uomo soverchiato dall’ineluttabilità del destino, giustificabile intendendolo come provvidenza.

Netto cambio di atmosfera per le Variazioni su un tema rococò Op. 33 di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Scritte nel 1876 ma rifacentesi al secolo precedente e in particolare ispirate nostalgicamente alla poetica mozartiana, il suono orchestrale si è fatto prezioso nell’accompagnare Miriam Prandi, violoncellista mantovana tra le interpreti più quotate del momento. Gli occhi sempre incollati allo sguardo del direttore a cercarne il flusso telepatico, e intercettandolo, Miriam Prandi ha ricondotto le impegnative variazioni, abilmente eseguite, all’elegante raffinatezza di elemento ornamentale; ha tessuto un dialogo proficuo con l’orchestra con la quale è intercorso un vivace scambio di passaggi cromatici. Con fraseggio morbido e fluido, Prandi ha alternato pagine gioiose a venature malinconiche, aperture elegiache a tuffi introspettivi a tu per tu con lo strumento dove, fra trilli e arpeggi, è emersa la cantabilità del suo archetto. Tre bis – un estroso Sollima, un raro Vasks, un rassicurante Bach – e poi la solista ha preso posto tra le fila orchestrali per il resto del concerto.

A tessere un legame con il tema del Festival Verdi di quest’anno, ossia il rapporto tra politica e potere, Dmitrij Šostakóvič che visse giorni difficili sotto il regime sovietico negli anni del totalitarismo staliniano. Fu duramente attaccato dalla stampa e minacciato di gravi ripercussioni per lo stile innovativo, dopo l’esecuzione (alla presenza di Stalin) di “Lady Macbeth del distretto di Mzensk”, opera che nel titolo presenta un punto di contatto con Verdi e che auspichiamo di poter vedere rappresentata a Parma in futuro. All’epoca, la Pravda in una serie di editoriali tacciò la sua musica di “puro formalismo piccolo borghese” deplorandone le “dissonanze volute” e il “confuso accavallarsi dei suoni”. Venne accusato di essere un “nemico del popolo” in quanto il termine “formalismo” identificava le espressioni ritenute ostili al popolo sovietico e potevano essere punite anche con la pena capitale. Sorte che toccò a diversi musicisti suoi amici. Comprensibilmente terrorizzato, Šostakovič ritirò la Sinfonia n.4 che era in fase di prove e sfornò la Sinfonia n.5 che porta come sottotitolo “riposta pratica di un compositore a una giusta critica”.

La quinta, eseguita a Parma, si rifà perciò al sinfonismo tardo romantico, con riferimenti pure alla musica sovietica, spunti sempre mediati dallo slancio inventivo autorale. Per sue stesse parole (atte a depistare), la sinfonia pone al centro l’analisi della personalità umana, i suoi slanci e la sua coscienza, la tensione dolorosa che nel finale trasmuta in gioia di vivere. Ma, ebbe a dire più tardi Šostakovič, “un giubilo forzato”, indotto, che dissimula l’irreparabilità della tragedia. Terreno fertile dunque per il direttore greco che proprio in Russia ha trovato l’agognata libertà dalle convenzioni ipertecnologiche occidentali. La visione di Currentzis, sempre alla ricerca del suono “perfetto”, è partita dall’analisi finalizzata alla comprensione delle reali intenzioni dell’autore, che ha esplorato nei più piccoli anfratti con energia, vividezza, convinzione.

Ancora due bis da Prokof’ev prima che il direttore conducesse con sé il primo violino fuori dal palcoscenico, in un tripudio da stadio: per fortuna mancavano bandiere e striscioni, ma non ci saremmo stupiti se li avessimo visti sventolare tra le dorature dei palchi ducali.

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma, Festival Verdi – Ramificazioni, il 12 ottobre 2024
Foto © Roberto Ricci

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