Di Maria Luisa Abate. Parma, Festival Verdi: stratosferica direzione di Roberto Abbado. Eccellente il cast, iniziando da Fridman e Pertusi.
Ci sia perdonato se tagliamo corto, se non indulgiamo a giri di parole, se usiamo la stessa “grazia” che possiede la sanguinaria Lady Macbeth: gli allestimenti specchianti il teatro che ospita lo spettacolo dovrebbero essere vietati per legge! Non perché non siano belli visivamente e validi nei contenuti: affascinante e di valore è stato nella presente situazione. Non perché l’idea del metateatro non sia brillante: intelligente significante ed efficace è stato questo risultato. Bisognerebbe evitare l’escamotage in quanto, nella sua ripetitività che nella mente dell’osservatore si associa ad altri titoli e altri contesti, perde buona parte dei suoi pregi sostanziali.
Al primo cimento verdiano in Italia, Pierre Audi, nato a Beirut ma naturalizzato francese, era il regista ideale per ambientare in Francia (come asserito nelle sue note) Macbeth eseguito nella versione di Parigi del 1865. Per il vero, riferimenti geografici eclatanti non c’erano e ciò ha costituito un merito. Di “francese” c’era la visione registica generale, il gusto e il modo, l’intenzione di rappresentare un luogo di finzione nascosto dietro una cortina superficiale, un mondo immaginario che altro non è che lo specchio – annerito di inquietudini – della realtà. Proprio come Macbeth e Lady Macbeth che dietro lo sfarzo derivante dal nobile lignaggio nascondono le peggiori atrocità. Ben venga quindi l’idea di ambientare l’esordio dell’opera in un teatro, luogo per antonomasia in cui la finzione acquisisce valenza reale; di collocare in uno spazio teatrale la vicenda, che come è noto Verdi mutuò da Shakespeare, nella quale l’invisibile retroscena riveste maggior valore del visibile in scena.
Nel Teatro del Regio replicato a specchio, su una fila ordinata di seggiole, hanno trovato posto le streghe, rivolte verso le loro prede ossia i veri spettatori, e intente a una gestualità simbolica, un modernizzato rituale magico culminato nel portare gli emblemi del potere, iniziando dalla corona. Al palco regale riflesso si affaccerà in seguito Duncan, omaggiato dalla corte di cospiratori. Un metateatro quindi che ha reso tangibile la presenza del male che si annida nel mondo reale.
Se la prima parte (l’apprezzabile abitudine di eliminare taluni intervalli per ridurre la durata complessiva della recita sovverte la consueta suddivisione in atti) ha avuto un retrogusto di deja-vu, nella seconda parte lo spettacolo ha innestato una marcia in più e alla riapertura del sipario la caratura del regista è emersa in tutta la sua eleganza estetica e ideativa.
Un pesante drappo rosso sangue, davanti al quale è apparsa la Lady, ha svelato una struttura a gabbia / prigione mentale (altro elemento ultra-visto ma ciò che conta è l’originalità nella declinazione) che ha conquistato lo sguardo per la pulizia delle linee (scene di Michele Taborelli); una bellezza accentuata dai magnifici e colorati tagli di luci ora sfumate, ora radenti, ora in controluce (di Jean Kalman e Marco Filibeck). Hanno aggiunto ulteriore fascino i costumi ricchi nei tessuti e nelle decorazioni riconducibili a un ottocento distinguibile eppure modernizzato (di Robby Duiveman) e soprattutto l’utilizzo registico, sostanziale e non di contorno, delle comparse e del balletto (stupende le coreografie di Pim Veulings).
Dietro le sbarre, rinchiuse nella cella / incubo dell’inconscio, stavano tre ballerine / belve umane repliche della Lady, tre come le streghe, che si sono contorte con movenze ferine per poi, al culmine della danza demoniaca, infilarsi sotto le gonne dei tulle neri appallottolati a simulare ventri rigonfi dalla gravidanza. Quella stessa negata alla Lady e a Macbeth al quale difatti le indovine avevano profetizzato che a salire al trono sarebbe stato il figlio di Banquo. Anche qui, il regista ha concretizzato la fascinazione magica shakespeariana sotto forma di una sfilata di bambini coronati apparsi in un momento di allucinazione mentale.
Al centro del palcoscenico una botola avente la duplice funzione di passaggio verso un regno d’oltretomba nero e tenebroso, dal quale uscirà la bara dell’ucciso re Duncan, e anche di porta d’accesso all’altrettanto nero e tenebroso inconscio: i protagonisti infatti si sono seduti sul bordo del supposto abisso, inghiottiti solo in piccola parte dalla pedana scesa di poco, trovatisi in bilico tra due mondi.
Come già ricordato, in Shakespeare e di conseguenza in Verdi è forte il substrato soprannaturale, così come abbondano le indoli deviate, malvagie o succubi o psicotiche. Status quo che il regista Audi ha sfruttato al meglio riconducendo il tutto a quella sfera dell’immaginario che abita le menti. E se da un lato tale scelta ha ridimensionato l’annunciata intenzione registica di incentrarsi sull’abuso di potere e l’intento di consegnare alla forza militare, sempre ben rappresentata in scena, il predominio su ogni diritto umano o divino; se dallo stesso lato ha fornito una sorta di edulcorazione alle atrocità pensate dalla Lady e attuate con altrui mano, riconducendole entro i confini fittizi dell’alienazione mentale, d’altro canto ha amplificato le suggestioni magiche dell’universo shakespeariano popolato da fattucchiere che operano sortilegi, affollato da apparizioni, spettri, fantasmi. Pierre Audi ha quindi efficacemente sviluppato i due binari paralleli del reale e soprannaturale shakespeariano, e la verdiana, più concreta e terrena specularità tra vero e apparenza.
Questo Macbeth, versione francese del 1865, rappresentato al Festival Verdi in forma scenica per la prima volta in tempi moderni, ha chiuso un “conto in sospeso” che il Teatro Regio di Parma aveva con il suo pubblico (tra cui notiamo sempre una nutrita presenza internazionale). La versione di Parigi era infatti già stata proposta in forma di concerto nel 2020 (recensione vedi qui), ossia nell’anno in cui il covid ancora scorrazzava e il Festival era stato trasferito nella suggestiva location all’aperto del Parco Ducale. Quella produzione, di altissima qualità, vinse il prestigioso Premio Abbiati (vedi qui). Per dirla brevemente, Giuseppe Verdi apportò lungamente innovazioni al suo primo Macbeth del 1847 per adattarlo al gusto d’oltralpe, inserendo o modificando diverse arie e aggiungendo i ballabili nel terz’atto. Si avvalse, oltre al fedele Francesco Maria Piave, dell’apporto di Andrea Maffei, e il libretto fu tradotto in francese da Charles Louis Étienne Nuittier e Alexandre Beaumont. A Parma è stata presentata l’edizione critica curata da David Lawton e revisionata da Candida Mantica.
Il successo riscosso nel 2020 si è replicato in questo 2024, sempre grazie alla qualità del cast, diverso da allora ma di livello eccelso equivalente. Sul podio, come nel 2020, è salito Roberto Abbado. Se il direttore già quattro anni fa si era presentato in stato di grazia, ora ha raggiunto l’empireo proiettando gli ascoltatori in uno stato di beatitudine raramente provato. Sempre più affinato, cesellato, ricamato a fili d’oro e seta come un prezioso e raro broccato il suo studio sulla partitura originaria che, come egli stesso ha spiegato, è corredata da una grande quantità di indicazioni e prescrizioni verdiane, estremamente precise. Ne è scaturita una lettura dai colori inquieti ad accentuare le violenze emotive e le caratterialità spietate dei protagonisti, che è stata stemperata all’occorrenza in suoni soffusi, con dinamiche ora infuocate ora diluite e “magicamente” rese da Abbado “tangibilmente immateriali”, fino a far sì che per l’ascoltatore fosse percepibile la ferocia degli assassini e la non meno feroce solitudine interiore nella quale si sono isolati i due protagonisti. Abbado ha compreso appieno lo slancio verso il “nuovo” che aveva animato Verdi e ha ben capito la necessità di fare propria una espressività che il Maestro aveva intesa globalmente. Una direzione quindi che, fra i mille e mille colori, l’infinita gamma chiaroscurale, gli innumerevoli cambi di atmosfera, il gioco delle dinamiche, si è presentata come un’unica sublime “arcata” grazie alla magnifica tensione drammatica senza cedimenti, alla bisogna alleggerita eppure sempre magistralmente percepibile, come ad esempio nelle parentesi dei deliziosi ballabili. Il direttore è stato seguito negli intenti, con feeling, dalla Filarmonica Toscanini con l’apporto dell’Orchestra giovanile della Via Emilia, e dal Coro del Regio di Parma che, sotto la guida di Martino Faggiani, si è reso protagonista di una prova superlativa per le tinte fosche e magiche, e che ha trovato due punti culmine: il coro delle streghe e “O Patrie! ô noble terre!” (in italiano “Patria oppressa”).
Assolutamente straordinaria Lidia Fridman, Lady Macbeth di preziosa caratura. È arcinoto che Verdi volesse per questo ruolo una voce “aspra” e intrisa di cupezza dark, caratteristiche che il soprano russo ha studiatamente messo in campo attingendo a padronanza tecnica e capacità espressiva, estendendole anche alla recitazione. Voce potente che ha svettato negli assiemi, piena e corposa sia negli alti che nei gravi, timbro fattosi di lucido acciaio, e una presenza scenica magnetica che ha catalizzato l’attenzione a ogni ingresso in scena, incentrata sulla fissità del viso come una maschera di bambola horror, presenza quasi sovrannaturale e terrifica.
Il baritono salernitano Ernesto Petti era Macbeth: alla voce salda, pastosa e dai bei colori, all’emissione levigata, all’espressività nel canto, ha unito un notevole scavo psicologico sul personaggio, soffermandosi sull’aspetto più fragile, insicuro, emotivo dell’indole dell’uomo succube della consorte.
Che dire ancora di Michele Pertusi nei panni di Banquo? Ogni prova del basso è un capolavoro di raffinatezza ed eleganza. La voce resa ancora più morbida dalla lingua francese neanche a dirlo padroneggiata (come del resto tutti i suoi colleghi sul palco), il fraseggio affinato come più non potrebbe essere, una gamma coloristica caleidoscopica studiata con attenzione e soprattutto con gusto, un’interpretazione sempre perfettamente centrata sul personaggio. La perfezione: null’altro resta da aggiungere.
Macduff aveva la voce chiara, l’emissione pulita e la presenza scenica incisiva di Luciano Ganci. All’altezza dell’impegnativa situazione i personaggi di contorno: David Astorga, Malcolm; Natalia Gavrilan, La Comtesse; Rocco Cavalluzzi, Un Médecin; Eugenio Maria Degiacomi, Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme; Agata Pelosi Deuxième fantome; Alice Pellegrini, Troisième fantôme.
Spettacolo splendido in ogni sua componente e premiato dal consenso entusiastico del pubblico.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma, Festival Verdi, il 17 ottobre 2024
Foto © Roberto Ricci
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