Di Maria Luisa Abate. Parma, Teatro Regio: sensibilità animalista di Carrasco e direzione illuminata di Ceretta per il titolo verdiano.
Un’iride grande e nera, le ciglia lunghissime. Un primo piano sullo sguardo dolce di un cavallo, creatura mite e gentile. Attraverso i suoi occhi abbiamo visto una battaglia feroce e cruenta. Poetica e toccante è stata l’impostazione registica di Valentina Carrasco, coadiuvata da un pool di numeri uno a firmare La battaglia di Legnano.
Molti spettatori hanno associato l’ispirazione teatrale al film del 1969 diretto da Sydney Pollack “Non si uccidono così anche i cavalli?”, mentre invece a noi ha richiamato alla mente un altro film, “War horse” del 2011 diretto da Steven Spielberg che ricevette sei candidature all’Oscar. Pellicola meravigliosa al punto che ne sconsigliamo la visione agli animi sensibili in quanto le sofferenze fisiche, le angherie inferte alla natura emotiva e alla sensibilità del povero equino, sul grande schermo sono state talmente verosimiglianti, talmente strazianti, e immensamente stupido e crudele è apparso il comportamento dell’uomo, da cagionarci tuttora incubi a occhi aperti.
“War horse” era ambientato durante la prima Guerra Mondiale e in questo stesso periodo la visione di Valentina Carrasco si è collocata, almeno in parte. Infatti i costumi di Silvia Aymonino, in particolare le divise militari, hanno spaziato in una significativa miscellanea di epoche storiche che ha universalizzato lo sguardo. Del resto il librettista di Verdi, Salvadore Cammarano, attinse spunto da La Bataille de Toulouse di Joseph Méry per confezionare la parte narrativa dell’opera musicata da Verdi e ambientata al tempo delle lotte tra i Comuni della Lega Lombarda e Federico Barbarossa. La ‘prima’ del titolo (non senza aver passato i soliti guai con la censura) avvenne a Roma il 27 gennaio 1849, alla vigilia della proclamazione della Repubblica Romana, quando Papa Pio IX era riparato a Gaeta e dilagava l’ideologia mazziniana. I moti delle tre Guerre di Indipendenza sfociarono in seguito in quella che molti giudicano la quarta Guerra di Indipendenza, ossia la prima Guerra Mondiale. La battaglia di Legnano è considerata dagli studiosi l’unica opera verdiana veramente risorgimentale per i suoi contenuti altamente patriottici.
Stante questo substrato, non stupisce che la regista argentina abbia voluto soffermarsi sul periodo della Grande Guerra, senza impantanarvisi e allargando l’ottica attraverso i secoli, a ogni guerra di ogni tempo. Non solo grazie ai suddetti costumi multifoggia ma anche inserendo citazioni iconografiche di equini belligeranti come nell’affresco seicentesco di Cavalier d’Arpino, La battaglia di Tullio Ostilio contro i Veienti che si trova nei Musei Capitolini e che è stato proiettato sul fondale. Richiami e rimandi, dunque, a diversi periodi storici, evidenziando l’insensatezza della guerra, focalizzando l’attenzione sul dolore cagionato in quelli che, nelle note di regia, vengono chiamati “effetti collaterali”.
Nella musica, si sa, le pause hanno eguale valore espressivo delle note. Analogamente si è mossa la grande scenografa Margherita Palli, che ha dato efficace declinazione al less is more, lavorando per sottrazione ma non per eliminazione, avvalendosi anche (non solo) del “riempimento” delle stupende luci di Marco Filibeck, elementi scenografici a pieno titolo. I cavalli, in luce e in controluce, in primo piano e sullo sfondo, con il muso grande o la criniera riccia, erano sempre presenti in scena sotto forma di manichini molto realistici a grandezza naturale (avremmo voluto anche gli asinelli, da sempre “arruolati” come facchini tra le fila degli eserciti). Si sono visti le sofferenze, le ferite, le atrocità o gli abusi (pensiamo alla scena delle code equine portate come extension dalle donne del campo) perpetrati a danno di questi fedeli compagni, periti durante il combattimento gli uni sugli altri, mischiando il proprio sangue con quello dei loro cavalieri.
Per l’intera durata dello spettacolo in proscenio era adagiato, morto, un purosangue dal manto candido macchiato dagli spruzzi del suo stesso sangue, e la cui testa mozzata staccata da Barbarossa come trofeo ha lasciato vedere la carne rosso vivo. Sarà su questo “milite ignoto” a quattro zampe che verrà al termine posata la bandiera della Lega Lombarda. I cavalli quindi simbolo di tutti i caduti di tutte le guerre; simbolo di tutte le vittime innocenti e inconsapevoli che la lotta armata non hanno voluto ma l’hanno subita, impotenti.
Eseguita a sipario chiuso e senza invasioni registiche, come oggi sovente accade, la sinfonia di quest’opera tornata sulle tavole del Regio di Parma dopo 12 anni di assenza, nell’ambito del Festival Verdi, affidata a interpreti di tutto rispetto.
Al timone musicale, impugnato con mano ferma ma gentile, coerenza e consapevolezza, il ventisettenne Diego Ceretta salito sul podio dell’Orchestra e del Coro – guidato da Gea Garatti Ansini – del Teatro Comunale di Bologna, che ha coprodotto il nuovo allestimento. Ceretta, seguito dalla formazione vivacemente ricettiva, ha dimostrato padronanza tecnica nel concretizzare la propria direzione e concertazione. Non è mai caduto nel tranello dell’effetto eclatante, neanche nelle marce e nelle numerose pagine a rischio “banda”; ha ricercato una incisività profonda, ha posto in risalto le tinte impetuose dell’amor di patria senza mai indulgere al retorico o al didascalico e le ha stemperate, ove necessario, in squarci d’azzurro lirici, in aperture al sentimento.
Ceretta si è prodigato non solo nel sostegno delle voci ma anche nel dare consistenza ai personaggi nei risvolti che in partitura risultano sfumati. Ha usato colori e dinamiche con accortezza, brillantezza, gusto estetico, riuscendo nell’impresa, anch’essa sotto certi aspetti eroica, di scovare e far percepire quella bellezza di cui sono intrise anche le pagine verdiane meno apprezzate di quest’opera, composta da Verdi quando abitava a Parigi e che da sempre non viene annoverata tra le meglio riuscite del Maestro ma che, grazie a Ceretta, ha acquistato ulteriori motivi di attrattiva.
Il cast ha visto i debutti nei rispettivi ruoli di Marina Rebeka e Antonio Poli. Ha confermato la sua caratura da fuoriclasse il soprano lettone Marina Rebeka che ha dato spessore attoriale a Lida assimilandola all’Anita garibaldina; mentre sul fronte vocale ha sostenuto alla perfezione gli acuti, ha affrontato e risolto egregiamente le agilità, ha commosso nella struggente preghiera, si è ovunque mostrata prodiga di colorature smaltate, ha sfoderato un fraseggio tarato sull’espressività e sul valore della parola avvalendosi della sua preparazione da musicista che si è nettamente percepita.
Al suo fianco due personaggi, innamorati e ambasciatori della Lega: Arrigo e il suo amico Rolando. Compagna di Arrigo, ritenutolo morto, Lida si unirà poi al secondo, dando vita al classico triangolo amoroso. Antonio Poli, timbro luminoso, voce smaltata, squillo limpido, cura per la linea stilistica non priva di raffinatezze anche grazie alla dizione esemplare: il tenore italiano ha centrato la figura di Arrigo con giovanile slancio sia negli impeti eroici che nei turbamenti amorosi.
Rolando aveva la duplice contezza di patriota e di innamorato di Vladimir Stoyanov: il baritono bulgaro all’ultima data del titolo, alla quale noi abbiamo assistito, si è presentato in forma buona pur meno ottimale di quella che gli conosciamo, svolgendo in ogni caso una recita improntata all’eleganza, alla classe interpretativa, alla raffinatezza del dettaglio, con la vocalità resa morbida dai legati e protesa alla ricerca degli accenti verdiani.
Importante e ben a fuoco la voce di basso di Riccardo Fassi, novello Marc’Aurelio (citazione riconducibile, come il sopradetto affresco, alla zona Capitolina) in groppa al destriero di Federico Barbarossa per fare il proprio ingresso in scena in uno spettacolare controluce che ne ha sottolineato la natura, differente rispetto all’immaginario collettivo, di nobile condottiero. Appropriato nella sua spregevolezza il personaggio di Marcovaldo ottimamente interpretato da Alessio Verna. Più che promettenti i giovani allievi ed ex allievi dell’Accademia Verdiana – Corso di Alto perfezionamento in repertorio verdiano, che hanno completato il cast: Emil AbdullaievIl Podestà di Como / Primo Console di Milano; Bo YangIl Console; Arlene Miatto Albeldas Imelda; Anzor Pilia Uno Scudiero di Arrigo/Un Araldo.
Una considerazione conclusiva di colore. È stata una bella soddisfazione aver avuto per vicino di poltrona uno dei tanti turisti stranieri che hanno incluso nel loro tour la cultura di qualità che si trova al Teatro Regio di Parma. Questo signore, che nei buonasera di rito ha dimostrato di non conoscere la nostra lingua, ha canticchiato tra sé e sé, in educato silenzio e dall’inizio alla fine, le esatte parole italiane di questa che è una delle opere meno note di Giuseppe Verdi. Meno bella l’ennesima constatazione su quanto oggi la lirica vanti estimatori in tutto il mondo più numerosi che in Italia. Ma qualcosa si sta muovendo: i teatri, con in prima fila il Regio di Parma, stanno concretamente riuscendo ad attirare nuovi pubblici con iniziative dedicate. Questa è la più bella conclusione che il Festival Verdi 2024 avrebbe potuto avere.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi – il 20 ottobre 2024
Foto © Roberto Ricci
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