Di Diego Tripodi. Bologna: recital della pianista Maria Grazia Bellocchio a ‘Il Nuovo l’Antico’.
Raggiungere la città dai sobborghi, dove fino a sera, molto modestamente, “i fanciulli vengono a me” per apprendere i mirabolanti segreti del pianoforte in mio possesso, è divenuta cosa davvero ardua: cantieri in ogni dove ostacolano il mio tragitto mettendo sempre a rischio la mia vita mondana. Devo pure stare attento a non perdere l’ultimo autobus che mi porterà filo filo al concerto di questa sera. Neanche a dirlo, è in ritardo.
Che c’entri proprio la serata? È il 31 ottobre e una pertinente nebbiolina umida invade il largo stradone. Nella piazza oltre il portico è tutto una fiera di mostriciattoli d’ogni sorta, vampirelli, streghette, fantasmini, ognuno col giusto cerone e qualche gocciolina di sangue punteggiata qua e là, tutti eccitati dalla straordinarietà dell’occasione e, forse, dall’eccesso di zuccheri. Sciamano gironzolando con mamma e papà appresso, fra strilli e risatine e nuvole di odori dolciastri. Su tutto, dalle casse di un palchetto, echeggia il canto strampalato di qualche tizia che, di simili piazzette, campa.
Non arriverò mai in tempo, l’unica è sperare nel quarto d’ora accademico di ritardo e anche così…
Finalmente, appena schiuse le portiere, giù! Via Indipendenza di corsa, schivando altri mostruosi passanti. L’età media però è salita, d’altronde la città si nutre di altra movida: sexy streghe scosciate e vampiri fashion, sbottonati nello sbottonabile e capello ribelle.
Galoppo senza posa, il pesante bagaglio del mestiere in groppa, attraverso il curioso Sabba. Ed ecco l’Oratorio di San Filippo Neri, luogo del concerto: varco l’ingresso mentre già sento, al di là del tendaggio a separé, gli applausi accogliere la pianista. Acciuffati programma e biglietto, faccio appena in tempo a guadagnarmi una delle sedute più vicine, che le prime note, limpide, risplendono e poi ricadono “tendrement” (sic) in un riverbero accogliente: Rameau Musette en rondeau.
Ospite abituale de “Il Nuovo L’ Antico”, Maria Grazia Bellocchio deve le sue ripetute esibizioni grazie ad un felice incontro fra gli intenti della rassegna e il costume suo proprio di creare excursus fra antichi e moderni, di cui, questi ultimi, è interprete italiana di riferimento, grazie soprattutto alla collaborazione storica con Divertimento Ensemble, per il quale fra l’altro organizza progetti didattici rivolti a giovani interpreti e giovani autori.
Rameau dicevamo, poetico e immaginifico, vero sezionatore del programma con ben quattro dei suoi splendidi gioielli dal Deuxième Livre dei Pièces de clavicin, ma anche Scarlatti, fantastico e inquieto, con le sonate K.213 e K.513.
In rappresentanza del ‘900, che ancora si fatica a tenere discosto e separato dai frutti della stagione creativa di oggi, c’erano i due capricci di György Ligeti, due lavori giovanili impregnati di bartokismo più dello stesso Bartók.
Infine, l’approdo alla musica di oggi avveniva sulle coste frastagliate di una selezione dagli interludi di Alessandro Solbiati, divisi in due tranche, e di due brani di Fabio Nieder, il primo, “Parlando”. Una ninna nanna, sorta di moderna parafrasi su una melodia popolare slovacca e il secondo, in prima esecuzione assoluta, dal titolo curioso di Vesper-Chiuzbaia per pianoforte a due mani, à Maria Grazia Bellocchio.
Concentrandoci sulle isole più contemporanee, riportiamo l’impressione per la raccolta sapiente e caleidoscopica di Solbiati (di cui il lettore può ascoltare comodamente l’integrale su YouTube dalle mani della stessa Bellocchio); invece, spero di non essermi lasciato condizionare da zucche e lumini, se dico che le suggestioni e i rimandi all’est europeo in Nieder trovavano spesso nella ritualità dell’ipnosi – quasi in idee da formule magiche – il significato delle indicazioni ora di ninna nanna ora di solennità quasi innodica.
Bellocchio è interprete nota per la precisione e non ha tradito le aspettative. Il suo barocco è non barocco, privo di indulgenza verso qualsivoglia manierismo di moda (ad esempio, le ripetizioni spoglie, come specchio, come affermativa rassicurazione): una patina di sobrietà, come un velo steso su tutti, antichi e moderni, è stata la cifra del concerto, in cui la difficoltà di molti brani, né dissimulata né sofferta e neanche spettacolarizzata, rivelava un’arte fatta di dedizione.
Certo non vi era passionalità, la palette di colori era selezionatissima e centellinata con cura, nessuno strabordo emotivo né sbavature interpretative, da cui, d’altronde lo stesso programma metteva al riparo. Il recital della pianista milanese, allora, è stato una parentesi di austerità e concentrazione e, per il sottoscritto, quasi un riparo dal “paganesimo” commerciale di fuori (si dice con leggerezza, beninteso, nulla contro il paganesimo… casomai contro il commerciale).
Infine, il piccolo pubblico si è profuso in applausi calorosi, sia per i due compositori, Solbiati e Nieder, presenti in sala, che naturalmente per la pianista, richiamata sul palco un paio di volte per due piccoli e deliziosi bis tratti da un’altra amatissima raccolta: Játekók (Giochi), miniature didattiche – ma in verità trascese a più ambiziosi fini di repertorio – dell’altro György storico, ossia Kurtág. E così, dall’infanzia al pianoforte era partito e all’infanzia al pianoforte ritorna questo scritto nella sua conclusione.
Recensione di Diego Tripodi
Visto a Bologna – Il Nuovo e l’Antico – Oratorio di San Filippo Neri, 31 ottobre 2024
Immagini: foto Dino Russo
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