Di Maria Luisa Abate. Verona, Teatro Filarmonico: brillano direzione e cast nel titolo verdiano che destò scandalo per la modernità dei temi trattati.

Sobria, minimale, scarna la regia, basata su un centellinato numero di elementi scenici, su una misurata interazione tra i personaggi, non ultimo su un lungo tavolo avente la funzione di creare distanza. Si è concentrata sulla natura intimista del dramma l’attenzione del ginevrino Guy Montavon. Una essenzialità portata all’estremo grado, rivolta al sotteso, all’implicito.

Una situazione volutamente spoglia, studiatamente monocroma, giostrata per scenografie e costumi (di Francesco Calcagnini) sui toni del grigio, con la sola eccezione dell’abito rosso corallo dell’amante, che lo ha fatto spiccare sul gruppo dei benpensanti come in un gioco enigmistico ingenuo in cui scovare l’elemento estraneo. Un piccolo cambio e le anonime pareti grigiastre si sono movimentate lasciando posto a una cancellata e a una fila di ordinate bare cimiteriali, in vista della rivelazione dell’ultimo quadro, in cui a essere protagoniste sono state le parole idealmente uscite dai giganteschi libri sacri che tappezzavano le pareti della sala del consesso religioso. Sugli intervenuti, pronti a giudicare la rea di adulterio, sono scesi alcuni sassi, rimasti appesi a mezz’aria, materializzazione del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

Per l’epoca in cui fu scritta la situazione era a dir poco scabrosa. Infatti Verdi a metà Ottocento mise in musica l’infedeltà della moglie di un pastore protestante, Stiffelio, il tema del divorzio, infine il perdono concesso all’adultera dall’uomo di fede. Per i temi che fecero scandalo e attirarono la (solita) scure della censura, l’opera fu ritirata dallo stesso Verdi poco dopo il debutto – che avvenne a Trieste 174 anni fa, nel 1850 – e successivamente trasformata con pochi ma sostanziali cambiamenti nell’Aroldo. Stiffelio segnò il passaggio verdiano dagli spunti risorgimentali a quelli più intimistici, tuttavia non presenta veri intrecci personali o psicologici. Il titolo non godette mai di fortuna (forse anche a causa del libretto, non tra i migliori che scrisse Francesco Maria Piave) e rivide la luce solo nel 1968 a Parma con la direzione di Peter Maag, negli anni in cui la cronaca si accendeva di dibattiti sulla legalità del divorzio.

Proprio da Parma viene questo allestimento coprodotto con l’Opéra di Montecarlo una dozzina di anni fa (da non confondersi con quello ultrapremiato che Vick propose nel 2017 al Teatro Farnese). Così Stiffelio è andato in scena per la prima volta in assoluto al Teatro Filarmonico di Verona.

Di preziosa caratura la direzione di Leonardo Sini, che ha trasfuso l’eleganza del gesto nell’eleganza esecutiva, complice l’Orchestra di Fondazione Arena di Verona in gran spolvero, così come si è presentato al meglio il Coro, che Roberto Gabbiani ha preparato con attenzione alle sfumature interpretative, raffinate. Sini ha dato luminosità e freschezza al contesto, sottolineando la componente romantica dei toni corruschi verdiani, e ha dotato la propria linea stilistica di un’ampia e ariosa tavolozza coloristica che ha controbilanciato la cupezza cromatica della regia. A iniziare dalla sinfonia di cui ha proposto una lettura nulla meno che splendida (e che la regia saggiamente non ha invaso), Sini ha dispensato a piene mani, con gusto e senza eccessi, contrasti chiaroscurali emersi anche lungo la via sulla quale ha instradato le voci.

L’opera richiede interpreti di rilievo, iniziando da Stiffelio, quasi sempre in scena senza un’aria o un assolo “convenzionale”, tuttavia impegnato in un dettato presentante notevoli difficoltà. A superarle brillantemente Luciano Ganci: a parte una insignificante screziatura nella voce come può fisiologicamente capitare anche ai migliori (e Ganci lo è), superata con maestria, il tenore si è confermato un fuoriclasse. Splendido il timbro, ottimale la proiezione, notevole la potenza ed entusiasmante la tenuta che, al di là di quella sfortunata manciata di secondi, non ha mostrato cedimenti dall’inizio alla fine. Una interpretazione profondamente verdiana sia dal punto di vista musicale che dell’immedesimazione nel personaggio, dibattuto tra sentimenti contrastanti e laceranti.

Notevole il soprano Caterina Marchesini, la cui voce è emersa al meglio soprattutto nel centro e negli acuti, caratterizzata da legati che hanno reso morbido il suo canto, e dall’espressività appassionata nel vestire i panni di Lina.

Poi il padre, tanto inflessibile e duro nella professione della sua fede, quanto morbido e levigato era il timbro dell’interprete; Stankar aveva la classe, la nobiltà, la verdianità doc del baritono Vladimir Stoyanov, presentatosi in forma smagliante a dispensare accenti e colori, e che non ha faticato a conquistare il pubblico riscuotendo meritate ovazioni in special modo nell’impegnativa aria e cabaletta del III atto.

Dal timbro ambrato nondimeno fresco, assai diverso dal protagonista e anche per questo apprezzabile, il tenore Carlo Raffaelli nel ruolo del giovane amante Raffaele. Il basso Gabriele Sagona ha ottimamente figurato come l’anziano confratello Jorg. Ben inquadrati i cugini di Lina: Francesco Pittari, Federico, e Sara Rossini, Dorotea a completare un cast di tutto rispetto.  

Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 31 ottobre 2024
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona

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