Di Maria Luisa Abate. Brescia, Teatro Grande: la gioiosità del jazz sinfonico. Sir Antonio Pappano ha diretto la Chamber Orchestra of Europe. Bertrand Chamayou al pianoforte.
Ci sono serate che subito si intuisce resteranno nei ricordi personali più di altre, che presentano qualcosa di speciale non identificabile. Una sottile vibrazione nell’aria che si percepisce giorni prima quando si prenota il biglietto, che si respira fuori dal teatro mentre si passeggia sotto ai portici attendendo l’orario di inizio, che travolge come un vortice quando si sale la ripida scalinata, si varca la porta a vetri intelaiati nel legno e ci si accomoda nei velluti dell’accogliente sala del Teatro Grande di Brescia. Qui il presente e la storia si fondono perché questo Teatro, più di altri, è stato fino ai giorni nostri amorevolmente preservato, restaurato, valorizzato nei suoi dettagli originari, carichi di un fascino unico.
«Spero che il programma sia di vostro gradimento, buon ascolto, grazie». Con queste parole Sir Antonio Pappano, fresco di nomina come direttore principale alla London Symphony Orchestra dopo aver diretto stabilmente l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma e prima ancora la Royal Opera House Covent Garden a Londra (il suo curriculum ‘breve’ è lungo due pagine), ha concluso le note introduttive al concerto che sta portando in tournée in Europa e nel Nord Italia.
Le luci si sono abbassate ma non spente, in quella che viene chiamata “mezza sala”, a creare un’atmosfera salottiera. Tutti autori novecenteschi o di poco anteriori nel programma svolto con un’intelligenza di approccio alla quale ci inchiniamo, anche se era prevedibile trattandosi di uno dei cinque o sei più grandi direttori d’orchestra al mondo.
Il Maestro (che non ama essere definito tale in quanto è incessante il suo voler apprendere di e dalla Musica) si è presentato affabile e sorridente a spiegare ciò che di lì a poco avrebbe diretto. Il sorriso, esteso alla linea stilistica esecutiva, è stato la chiave di volta di un successo che ha travalicato le già alte aspettative.
Il direttore britannico naturalizzato statunitense, con radici e cittadinanza italiana, ha spiegato di aver cercato di dare un’impronta che fosse «il più jazz possibile». Idea vincente e perfettamente riuscita. Certo, nulla a che fare con l’atmosfera densa e fumosa che si respirava nei club newyorkesi del secolo scorso, bensì uno stile rifacentesi alla grande tradizione del jazz sinfonico, spesso celebrata da Hollywood, e che purtroppo oggi va perdendosi tra i meandri degli eccessi, a volte esagerando in libertà jazzistiche, a volte strangolandola nei lacci sinfonici. Sir Tony ha trovato perfetta calibratura proprio grazie all’approccio divertito, nondimeno colto e profondo, che ha proiettato il pubblico al centro dell’epoca d’oro d’inizio Novecento caratterizzata da cambiamenti epocali non solo nel fermento compositivo ma anche nel gusto esecutivo, cui il direttore ha infuso radiosa linfa.
In apertura di serata ha preso posto sul palco un piccolo ensemble della Chamber Orchestra fo Europe, in un organico che il direttore ha definito «molto curioso», presentante solo quattro archi senza viole ma con il saxofono, batteria e «ovviamente» i timpani oltre al pianoforte. Il balletto La création du monde op 81 di Darius Milhaud non ha matrice cristiana e si riferisce invece a una visione del creato incentrata sulla natura che germoglia, alla comparsa sulla Terra degli animali, dell’uomo e della donna tra i quali scorre la passione sfociata in un bacio che coincide con lo sbocciare della primavera. Valorizzando le singole specificità timbriche dell’ensemble orchestrale, e senza rinnegare la forte radice afro-caraibica intavolata da Milhaud, il direttore ha cinto il pezzo di sprazzi di gioia ma anche di quella particolare malinconia blues che certamente era nelle intenzioni del francese assiduo frequentatore dei locali di Harlem.
La COE, di cui fanno parte musicisti per lo più giovani, quasi tutti prime parti in altre importanti orchestre (tradotto: un’orchestra di solisti), ha rimpolpato le sue fila per la restante parte della serata proseguita con Ravel. Il quale, ha spiegato il Maestro, è stato tra i compositori che hanno spianato la strada ai nuovi fervori creativi sviluppatisi oltreoceano. Il Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra unisce il jazz alle influenze basche e ha visto sedere al gran coda Bertrand Chamayou, impegnato nell’intero programma in un autentico tour de force. Confessiamo di non aver mai amato particolarmente Ravel fino a questa occasione in cui, grazie alla concertazione illuminata, abbiamo apprezzato le raffinatezze stilistiche e l’ampiezza dello sguardo autorale, privo di vincoli e di preconcetti, di una modernità che tutt’oggi non ha perso la sua valenza espressiva.
Nella seconda parte, due compositori che personalmente adoriamo e che abbiamo trovato anch’essi splendidamente eseguiti, con contagiosa gaiezza. Di Gershwin sono state presentate le variazioni su I got rythm in un arrangiamento che Sir Pappano ha definito «molto hollywoodiano». Il solista è stato di frizzante vivacità al pianoforte:nitidi i tempi sincopati sostenuti da un fraseggio anch’esso splendidamente ritmato, tocco cristallino e leggerissimo, Chamayou si è mostrato scevro da intenzioni protagonistiche in favore d’un vitaminico amalgama con l’orchestra, di cui la tastiera è stata una voce tra le voci.
Conclusione con il magnifico gioiellino Fancy free di Leonard Bernstein, compositore passato alla storia anche per le celeberrime lezioni musicali che tenne ad Harvard, citate da Sir Pappano (la scrivente le aveva registrate tutte su vecchie videocassette quando la televisione le aveva trasmesse a tarda notte. Ora si possono trovare su YouTube o su DVD, assieme alle lezioni con lo stesso Bernstein al pianoforte accompagnato dalla New York Philarmonic alla Carnegie Hall: da guardare assolutamente!). Fancy free significa fantasia libera ed è anch’esso un balletto che a Brescia si è potuto apprezzare in tutto il suo splendore costruttivo, in tutta la strabiliante inventiva della partitura ricca di colori attinti alla musica popolare ripensata attraverso innovativi e travolgenti costrutti ritmici e melodici.
Il jazz è prima di tutto gioia di suonare assieme e anche quando si tratta come in questo caso di jazz sinfonico, l’atmosfera è cameristica, come se ci si ritrovasse in un ristretto gruppo di amici desiderosi di condividere assieme un’esperienza d’ascolto. Contagiati dal sorriso del direttore, dalla brillantezza dell’orchestra, dal tocco cristallino del pianista, ci siamo abbandonati a una danza interiore, alla lietezza dello spirito. Sir Antonio Pappano ci aveva salutati in apertura di serata dicendo: «godetevi il concerto». Grazie Maestro, ce lo siamo proprio goduto.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Grande di Brescia il 10 novembre 2024
Foto Umberto Favretto New Reporter Agenzia
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