‘Un albatros ferito dal dio denaro’ di Giulia Palazzoli. Venezia: ‘La traviata’ di Verdi attraverso gli occhi di Robert Carsen compie vent’anni e il Teatro La Fenice la celebra con un’edizione speciale dominata dalla Violetta di Ekaterina Bakanova.
Tra gli anni ‘90 e gli inizi degli anni 2000 si sono affacciate alla ribalta una serie di produzioni de La traviata, che hanno segnato (pur in modo diverso) la storia del teatro musicale degli ultimi trent’anni. Nel 1990 Riccardo Muti riportò Traviata alla Scala dopo una lunghissima assenza, affidandola ad una compagnia di giovani artisti: Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e Paolo Coni. Nel 1994 l’ottuagenario Georg Solti diresse per la prima volta il capolavoro verdiano, facendo nascere attraverso la filigrana della sua direzione l’astro di Angela Gheorghiu. Nel 2005 infine la produzione simbolista di Willy Decker con le interpretazioni della coppia Anna Netrebko-Rolando Villazón, scatenò un effetto mediatico travolgente nel mondo dell’opera.
Un anno prima, nel 2004 un’altra Traviata aveva scritto una enorme pagina di storia del teatro, quella di Robert Carsen per la riapertura del Teatro La Fenice, ricostruito dopo lo sciagurato incendio. Il gioiello della laguna riapriva il proprio sipario con uno dei titoli più legati alla sua storia, quella Traviata accolta con freddezza al suo debutto nel 1853, ma poi diventata un caposaldo del repertorio dei teatri di tutto il mondo. Il sovrintendente Fortunato Ortombina (che da marzo sarà alla guida della Scala), ricorda nel depliant celebrativo del ventennale di questo allestimento, come esso sia stato accolto tempestosamente al suo esordio, per poi essere definitivamente entrato nel repertorio del teatro nel 2009.
La traviata vista da Carsen, rivista oggi, non ha realtà nulla che faccia gridare alla profanazione, ma si osserva come il regista abbia compiuto uno scavo profondo sulla società che ruota intorno ad una donna come Violetta, esaltando i rapporti tra i personaggi e ogni loro reazione emotiva. Questa ripresa per il ventennale è evidentemente graziata da una cura registica molto dettagliata e riemergono così tantissimi aspetti della prima edizione. La dimostrazione finale è che la riuscita di uno spettacolo sta nella sua “tenuta” nel tempo. Questa Traviata è eternamente giovane, nei concetti e nei sottotesti gestuali ed emotivi.
Esempio massimo è fil rouge del denaro, le onnipresenti banconote, che segue lo spettatore dall’inizio alla fine: nel primo atto è l’obolo per accedere al Sancta Sanctorum della grande dea del sesso (dove cassetti della casa di Violetta trasbordano banconote), nel II le banconote sono foglie dell’autunno della vita della protagonista, per poi essere contenute in una grande busta d’immondizia nell’ormai vuoto appartamento.
Ricordiamo un altro aspetto che ci ha colpiti particolarmente rivedendo lo spettacolo: il ruolo di Annina. L’importanza che le dona Carsen è stata poi imitata da tutti (con risvolti anche fantasiosi, se non comici, nella produzione di Tcherniakov alla Scala). Nel I atto Annina è complice di Violetta, raccoglie i soldi dei clienti e li ripone nei cassetti, nel II atto assiste con devozione a questa storia d’amore, ma animata sempre da un timore che tutto si volgerà in tragedia presto. Nell’ultimo atto assume una centralità emozionale che diventa ponte tra il palcoscenico e la platea. Nel momento in cui Violetta e Alfredo si riuniscono esce dando le spalle al pubblico, mettendosi nella prospettiva di quest’ultimo e si allontana con un atteggiamento che suggerisce la volontà di regalare un ultimo istante da soli a queste due anime, prima della fine. Lo sguardo che Annina, complice anche la bravura dell’interprete Barbara Massaro, volge a Violetta è la summa della pietas, è la tenerezza di Baudelaire verso l’Albatros ferito, il cui volo è terminato dolorosamente. Nel momento in cui la morte si avventa su Violetta, Annina afferra la pelliccia e scappa. Non è un atto crudele, sciacallaggio, è paura, non vuole rispondere a nessuna domanda, vuole ricostruire la sua vita e mantenere solo nel cuore, attraverso quell’oggetto, la memoria di quella donna straordinaria che ha sfiorato la sua strada, segnandola però ineluttabilmente.
Veniamo al “fatto” musicale. Diego Matheuz torna sul podio della Fenice e offre una lettura del capolavoro verdiano di buona impronta teatrale e piuttosto puntuale nell’assecondare le esigenze del canto, pur imponendo talvolta sonorità troppo robuste e qualche discontinuità agogica.
Citati gli apporti Emanuele Pedrini (un domestico di Flora), Antonio Dovigo (un commissario), il cast vedeva i puntuali Matteo Ferrara (Marchese d’Obigny), Rocco Cavalluzzi (Dottor Grenvil), Armando Gabba (Barone Douphol), il precisissimo Roberto Covatta (Gastone) e l’elegante Loriana Castellano (per una volta una Flora che non calca la mano). Menzione speciale per Barbara Massaro, Annina preziosa e cantante meritevole di ben altri cimenti (avendola ascoltata sempre a Venezia come eccellente Melia in Apollo et Hyacinthus ne siamo più che certi).
Nicola Alaimo è un Giorgio Germont cantato con classe. Purtroppo il paragone con Dmitri Hvorostovsky del 2004 è schiacciante soprattutto dal punto di vista teatrale, dal momento che l’idea di Carsen (peraltro più che suggerita da Verdi/Piave) era che vi fosse un rapporto di seduzione e potere tra Violetta e Germont, con un gioco di sguardi e gesti, che qui non si ritrovava.
Francesco Demuro trova in Alfredo uno dei suoi ruoli più frequentati, vincendo ancora una volta la sfida con un personaggio solo apparentemente semplice, con una vocalità solare, squillante in acuto e tornita nel centro, oltre che con un temperamento giustamente passionale.
Marina Monzó ha rinunciato, per un’indisposizione prima della generale, a sostenere il ruolo della protagonista. Tutto risolto. Ekaterina Bakanova è una Violetta straordinaria. Chi cerca l’edonismo sonoro forse non sarà soddisfatto. Chi cerca il teatro qui lo trova tutto. Ogni accento è partecipato con una verità toccante, ogni gesto nasce da una compenetrazione nel personaggio che ci ha lasciato commossi e turbati. La differenza tra cantante e artista è tutta qui: il primo illustra il personaggio, il secondo lo vive insieme al pubblico. Bakanova è il secondo caso e per questo la ringraziamo.
Recensione di Giulia Palazzoli
Foto © Nicola Rigo
(Le immagini si riferiscono alla prova generale)
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