Di Maria Luisa Abate. Verona, Teatro Filarmonico: ottimo cast e regia aggraziata e fiabesca nell’allestimento proveniente dal Maggio Musicale Fiorentino.
Una regia deliziosa, estremamente godibile, divertente senza eccessi, pienamente in grado di trasmettere l’ironia e la leggerezza rossiniani. E anche suggerire, con eguale grazia, il tema dell’emancipazione femminile, inteso come lo sparire di un’epoca patriarcale e l’arrivo di nuove dinamiche sociali rispettose dei sentimenti.
Cenerentola insegna che i matrimoni combinati per risollevare le finanze o per elevare il blasone, oppure, se visti dalla parte del principe, per dovere di casta, siano superati e perdenti rispetto all’amore, che ha il sopravvento. Temi già presenti nella favola Cendrillon di Perrault che il librettista Jacopo Ferretti ampliò con spunti attinti ad altri due libretti d’opera e che si ritrovano già nel titolo originario del capolavoro di Gioachino Rossini “La Cenerentola, ossia la bontà in trionfo”. La nostra Cenerentola è una giovane consapevole e tiene accanto al caminetto una pila di libroni che la proiettano nel mondo della poesia. E non perde una scarpetta, bensì, speranzosa, lascia al principe uno dei suoi due braccialetti gemelli.
Spiccava la firma di Manu Lalli alla regia di questo aggraziato allestimento proveniente dal Maggio Musicale Fiorentino (portato in teatro dopo aver debuttato negli spazi esterni di Palazzo Pitti). Favorita dalle scene chiare e luminose di Roberta Lazzeri e dai costumi di Gianna Poli, l’attorialità si è mossa su binari divertenti, spiritosi e come si diceva senza eccessi, mentre il ritmo brioso è stato assicurato dalle incessanti controscene e dai tanti escamotage buffi: uno su tutti la carrozza che conduce Cenerentola al ballo, che il pubblico ha immaginato grazie a quattro palafrenieri, ai cavalli impersonati da danzatrici e alla grande zucca arancione portata in mano da una bimba. Importante e impegnativo è stato il ruolo rivestito da questa giovanissima e bravissima figurante, così come sostanziale è stato il ruolo assegnato al gruppo di danzatrici nei panni delle fatine sempre pronte ad aiutare Cenerentola svolazzandole attorno e spargendo ogni volta una delicata polvere magica argentata. Una regia che ha unito al tema dell’emancipazione sopracitato, un pizzico di studiata consapevole ingenuità fiabesca che è stata la ciliegina sulla torta.
Sul podio è salito Francesco Lanzillotta, impegnato a condurre l’Orchestra di Fondazione Arena in una lettura dai tempi sostenuti ancorché anch’essa aggraziata, senza trascurare le sottolineature come nel caso dei celeberrimi “crescendo” rossiniani, giostrando al meglio sull’uso delle dinamiche. E poi colori e accenti dispensati dal direttore a piene mani, sempre con gusto ed eleganza, attingendo a quella vivacità insita nella musica di Rossini che, con innovazione sorprendente per l’epoca, muta splendidamente i suoi contorni passando dalla tenerezza favolistica alla giocosità, fino alla comicità surreale oppure spiazzante. Il tutto miscelato al sentimento, da quello sincero di Cenerentola alle bassezze meschine del suo burbero tutore (che nell’opera prende il posto della matrigna cattiva). A ciò, e alla rossinianità dei caratteri sul palco, è stata rivolta la cura e l’attenzione direttoriale, con risultati sopraffini.
Il cast ha schierato una serie di specializzati nel repertorio belcantista. Angelina, la nostra Cenerentola, era Maria Kataeva, al debutto al Filarmonico. Voce brunita e calda come il caminetto davanti al quale vive la protagonista, il mezzosoprano russo ha messo in campo agilità ed estensione, e in special modo la capacità di compiere con facilità gli arditi balzi rossiniani da un registro a un altro. Mentre dal punto di vista attoriale si è mostrata una donna docile per certi versi e per altri determinata.
Il Principe Don Ramiro era Pietro Adaini, già applaudito come esordiente proprio in questo ruolo otto anni fa, dal timbro chiaro e squillante di tenore belcantista con l’aggiunta di una notevole proiezione, avvezzo nella tecnica tanto alle coloriture quanto alle note sovracute a dare eleganza, anche nei modi, al personaggio.
Veniamo ai due “buffi” che in realtà si discostano da tale tradizione e che, come è ricordato nei programmi di sala, sono musicalmente e vocalmente profondamente diversi. Tuttavia non bisogna dimenticare che i punti di contatto ci sono, tanto che in passato i due ruoli sono spesso diventati interscambiabili in quanto sono stati alternativamente sostenuti dai medesimi interpreti.
Dandini, il cameriere del Principe che ne prende il posto per permettere al padrone di osservare meglio le aspiranti spose, era il baritono Alessandro Luongo, spiccato per la cantabilità e la nobiltà dei suoi mezzi.
Don Magnifico era Carlo Lepore irresistibilmente divertente negli atteggiamenti burberi e nell’epocale stupidità. Il basso si è confermato un autentico mattatore, dal carisma magnetico con cui ha conquistato la scena, formidabile nei sillabati e nello “scilinguagnolo” e perfettamente a proprio agio nel risolvere arie tecnicamente impegnative sfoderando ampiezza di estensione.
Ricercatamente sopra le righe, e non poteva esser diversamente, le sorellastre Clorinda e Tisbe, interpretate dal soprano Daniela Cappiello con voce tornita e dal mezzosoprano Valeria Girardello dai bei toni scuri. Il basso Matteo D’Apolito era Alidoro, deus ex machina della vicenda, tanto sciolto scenicamente quanto a posto vocalmente.
Il Coro portato a un livello ottimale di preparazione da Roberto Gabbiani si è presentato sul palco in splendida coesione e con un’ammirevole precisione negli attacchi.
Uno spettacolo come si diceva di estrema godibilità, che ha riportato a Verona un titolo sempre accolto con grande favore. Da segnalare che anche nella replica infrasettimanale cui abbiamo assistito il teatro era stracolmo di pubblico visibilmente soddisfatto.
Recensione di Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 20 novembre 2024
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